Dalla parte di Elody

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Le Lettere a Giani di Elody Oblath sono la testimonianza del rapporto che la legava a Giani Stuparich tra il 1914 e il 1922

di Silva Bon

 

Le Lettere a Giani parlano della storia d’amore tra Giani Stuparich e Elody Oblath Stuparich.

Prima di diventare un vero amore, il rapporto tra i due giovani intellettuali triestini è intessuto di amicizia, di una ricerca e di un’empatia reciproca di ampio respiro, costruita su narrazioni e confidenze, che si allargano a comprendere anche la stretta cerchia di fratellanza con i comuni sodali Scipio Slataper, Luisa Carniel, Anna Pulitzer.

Il piccolo gruppo sviluppa al suo interno legami che si prolungano oltre la breve vita di alcuni di essi: Anna Pulitzer, ispiratrice de Il mio Carso, muore suicida a Trieste nel 1910, portando con sé un messaggio subliminale per Scipio Slataper, l’imperativo a “fare”, a produrre la “grande opera”, l’ “Opera”; Luisa Carniel sposa Scipio, che muore sul Podgora il 3 dicembre 1915, combattendo volontario nell’esercito italiano; anche Giani e il fratello Carlo Stuparich fuggiti da Trieste, si arruolano nelle fila italiane per liberare le città irredente, Trento e Trieste. Carlo, muore anche lui in guerra, lasciando uno strascico doloroso di memoria che intreccia in un viluppo di sentimenti di amore e di sofferenza i due fidanzati e poi sposi, Giani ed Elody.

Le Lettere a Giani sono una silloge scelta e curata dalla nipote Giusy Criscone, figlia di Giovanna Stuparich, che conclude il lavoro di raccolta e di selezione delle lettere iniziato dalla zia Giordana Stuparich.

L’arco temporale in cui si snoda la scrittura delle lettere va dal 1914 al 1922: sono nove anni in cui la relazione tra Elody e Giani si modifica sostanzialmente con il matrimonio, celebrato al ritorno dal fronte alla fine della guerra, nel 1919, e la nascita delle due prime figlie, Giovanna e Giordana.

Bello sarebbe stato poter ricostruire il carteggio completo tra i due innamorati, per seguire da vicino, passo passo, la costruzione del legame: un dialogo, invece di un monologo. Infatti Lettere a Giani raccoglie soltanto la voce di Elody, ma Giani è in qualche misura il protagonista, essendo il referente, l’interlocutore delle molte domande che Elody (si) pone.

Penso sia corretto analizzare il peso che l’intreccio familiare ebraico costituisce di per sé, attraverso il recupero di un tassello non minimale della vita di Giani Stuparich: l’esperienza filtrata dalla madre Gisella Gentilli, proveniente dal milieu borghese triestino; i vissuti della fidanzata e poi moglie Elody, discendente di un’importante, ricca famiglia ungherese; presenze che intervengono certamente sulla formazione dell’ “uomo” Stuparich, anche se lui vive una contraddizione consapevole rispetto a questo côté ebraico (forse troppo ingombrante e connotante?).

La coerenza tra poietica, morale e vita vissuta è uno dei principi fondanti dell’ebraismo religiosamente inteso in una ortodossia di azioni e tradizioni millenarie.

Elody Oblath, nel giugno 1914, da Römerbad, scrive a Giani: «come vedi, Giani, io mi vanto spesso a torto di possedere leggerezza italiana, mentre più che italiana io sono forse ebrea. Ma chi sa chi sa – anche queste son vecchie storie noiose, e ormai senza senso. E forse tutti tutti non siamo che creature umane» (p. 25).

Da giovane sposa fa allusione alla parte di sé ebraica che Giani rifiuta. In una lettera scritta a Trieste, nel gennaio 1922 confessa: «Freddo glaciale, sole, bora. Dentro c’è la stufa. Giovanna fa la siesta nel suo lettino. Mamma pure è sdraiata; dice che sono anch’io un’anima in pena. Sono un’anima in pena io? Non so. Come tutti avrò anch’io la mia parte di sole e d’ombra. Queste corte giornate invernali più che mai mi riporterebbero alla contemplazione. Stanotte che sono stata desta qualche poco, pensavo… pensavo alla morte, che è una cosa così triste sempre. Non agli orrori della guerra pensavo, ma alla morte in generale; pensavo al mio babbo, alla sua semplice esistenza, alla sua morte; e a un fatto che non potrò scordare più: di non aver avuto il coraggio di vederlo dopo morto.

Giani mio, ti mando questi pensieri staccati, che non sono una lettera, perché tu me li accolga; sono stanchi brandelli di vecchi pensieri consumati. è la mia anima ebraica, a cui tu non vuoi bene, che parla. E’ l’antico nodo alla gola che non sono mai riuscita a ingoiare completamente» (pp. 145-146).

La madre Gisella è presente in un dialogo costante e costruttivo con la nuora Elody, vivono assieme una convivenza positiva, ricca di scambi affettivi e di aiuti sostanziali necessari, anche per la lontananza di Giani, che lavora in quell’anno all’Università di Praga.

Domande assillanti, che restano mute; analisi interiore; irrequietezza introspettiva; questi forse sono i “lati ebraici” di Elody, che Giani rifiuta? E l’ebraismo è la religione che pone questioni: ad un problema risponde con un nuovo problema, una domanda aperta per spuntare riflessione, intelligenza, pensiero critico.

Ci aspetteremmo delle risposte, purtroppo disattese.

Del resto Lettere a Giani costituisce un’opera che sta in piedi da sola, un romanzo epistolare dal raffinato sapore letterario, dato che la peculiarità di Elody consiste tutta nella sua espressività alta, mossa, modulata, animata da tensioni di stati d’animo che registrano i quotidiani passaggi, le fragilità e la forza: tutto ciò, un complesso mondo femminile, lei lo proietta nella scrittura delle lettere; il suo epistolario riflette la sua personalità intera, le sue esperienze, i suoi incontri intellettuali (tra tutti basti citare la poesia di Biagio Marin, ma anche le letture di Henrik Ibsen), le sue riflessioni filosofiche, i suoi sogni giovanili, le sue preoccupazioni di giovane sposa e madre, e naturalmente tutta la sua attenzione per Giani.

In realtà il modello letterario per eccellenza in Elody Oblath coincide proprio nella cifra scrittoria di lettere, come testimonia la sua bibliografia: così per il volume postumo Confessioni. Lettere a Scipio, pubblicato nel 1979 a cura di Giusy Criscione, così per L’ultima amica: lettere a Carmen Bernt Furlani 1965-1969, pubblicato nel 1991 a cura di Gabriella Ziani.

Le Lettere a Giani possono essere lette da punti di vista diversi: oltre che come analisi del rapporto con Stuparich, sono anche uno specchio del cambiamento e della maturazione di una donna, il filtro di un’educazione sentimentale, di un’evoluzione che passa attraverso il dramma e il doloroso distacco nei lunghi anni di guerra, per poi ritrovarsi nella costruzione di un nucleo familiare, negli impegni di pratiche e di doveri che si rinnovano costantemente, magari più duri quando il marito lavora lontano da Trieste, a Praga.

La silloge può anche costituire una fonte letteraria, cioè essere analizzata come un documento, un vero e proprio documento storico che coglie l’espressione di una intera generazione di donne e di uomini triestini: trapassa dall’adesione al movimento irredentista e interventista; alla concretezza sofferta del dramma della guerra, un’intera vita di quattro anni di pene lungo l’alternanza di successi, di sconfitte, di lotta durissima nelle trincee del Carso; fino al raggiungimento della vittoria, al conseguimento della pace, della Redenzione, momento in cui Elody, Giani, assieme a tanti altri intellettuali giuliani diventano Irredenti Redenti, per dirla con Renate Lunzer.

Il dialogo interiore di Elody, espresso nelle lunghe lettere, riflette la modulazione del suo pensiero, fedele all’ingiunzione giovanile: «solo così si può vivere: senza mentire» (p. 39).

 

 

Elody Oblath Stuparich

Lettere a Giani

a cura di Giusy Criscione

introduzione di Gian Marco Antignani

con una nota di Giuliano Manacorda

Officina Edizioni, Roma 1994

  1. 176, euro 15,00