Una valigia di parole

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Uscito trenta e più anni or sono, La valigia di cartone è oggi riproposto dall’editore Ronzani nel primo dei tre volumi che contengono l’opera narrativa della scrittrice di Pola

di Gabriella Ziani

 

«L’unica cosa che non riesco a perdonare a mia madre è di non avermi mandata a scuola. Quante volte ho pianto perché possiedo poche parole, poche frasi. Voglio spiegare una cosa e non posso farlo e mi sento come legata a un cavo che oscilla nel vuoto». Oppure, la donna che parla si sente come in fondo al mare, dov’è un inquietante, pauroso silenzio. Oppure dice «resurrezione» ma intende «insurrezione». Non sa capire che cosa sia il fascismo finché non ne vede la violenza. Non capisce perché dopo la guerra tanti dall’Istria scappino in Italia («una scarlattina di partenze, quest’influenza asiatica che lasciava vuota la città e i tavoli dell’osteria»). Non si spiega bene perché poi parte anche lei con marito e figlia. Non sa ringraziare chi le fa un favore, non è in grado di esprimere sentimenti. «Povera me! Quando penso alla mia infanzia, in genere alla mia vita, mi faccio pena, io a me stessa faccio pena».  Certo che fa pena, questa Norma istriana del borgo di Monghebo, fra Parenzo e Orsera, che per sopravvivere sa solo lavorare duramente, anche nel luridume (parole sue), avendo assaggiato da bambina la fame più disperata, e da adulta con l’esodo essendo stata catapultata a Brindisi – un altro mondo, che non riesce a decifrare. Norma ha visto sua madre vedova distruggersi di lavoro, di piccoli commerci frenetici, e l’ha sentita innalzare quei lavori al livello di una posizione morale, perché in condizioni estreme morale è procurare qualcosa da mettere sotto i denti.

Ma, come personaggio letterario, questa Norma non fa pena affatto. è uno dei capolavori di Nelida Milani, la scrittrice nata a Pola nel 1939 di cui adesso la casa editrice veneta Ronzani ha raccolto in tre volumi l’opera completa (Cronaca delle Baracche, ne ha annunciato l’uscita Maurizio Casagrande nel n. 71 del Ponterosso). è la protagonista di Una valigia di cartone, uscito nel 1990, subito vincitore del premio Istria nobilissima, e nel 1991 pubblicato da Sellerio (premio Mondello l’anno seguente) in abbinata con Impercettibili passaggi. Questa vasta serie di micro-storie – nel senso della lunghezza ma anche della materia narrativa e della scuola storica francese che l’ha per così dire scientifizzata – rappresenta una vera e propria epopea istriana vista dal basso. E dalla vastità è facile veder spiccare proprio Una valigia di cartone che si trova nel primo volume, L’osteria della Parenzana (pagg. 61-110), perché in questo breve mirabile testo sembra condensarsi una complessa poetica. Della scrittrice, che ama Calvino ma sente nella penna l’eco del verismo verghiano. Dell’”italiana rimasta” che sa esprimere tutto l’enorme sgomento dinanzi a un mondo smezzato, depauperato, dove il nuovo che avanza («occupazione, non liberazione»…) resta straniero, la vecchia morfologia urbana e sociale è solo memoria statica, e si resta dunque immobili, è sbarrata la visione del futuro.

Ma non solo: troviamo qui le arti dell’esperta di linguistica. Laureata in Lettere all’Università di Zagabria, Milani ha insegnato italiano e francese nei licei, ma poi si è specializzata in Sociolinguistica e dal 1979 ha avuto all’Università di Pola la cattedra di Linguistica generale e di semantica, ha studiato la competenza linguistica nei bambini bilingui, pubblicato saggi e curato il volume L’italiano fra i giovani dell’istro-quarnerino (2003). Nella sua condizione di voce della minoranza italiana in Croazia ha scelto dunque la parola come segno distintivo di una storia, di una società stratificata, di un infausto tragitto storico-politico, e come lei dice e come sappiamo la parola può diventare quasi un tutto. Vedi l’esperienza umana e artistica di Boris Pahor, amputato della lingua slovena dal fascismo.

Milani ha messo la parola al servizio di chi, per ragioni sociali e storiche, ne ha avuta in dote una porzione impura, frammista, avanzata dagli altri, un po’ guasta dunque, come una farina di guerra che non farà mai pane gustoso, e che alla fine nella sua impotenza ha però tanta potenza negativa da determinare destini.  Per questa operazione la professoressa scende dalla cattedra, torna in strada, in campagna, nei paesetti, nel quartiere delle Baracche appunto, fra i “mussi”, nelle osterie, nelle cucine con scarafaggi. In più ancora, Milani opta un’altra scelta determinante: quella parola in favore degli  “ultimi” prende voce nelle donne, presenza senza dubbio maggioritaria nel suo ricchissimo arazzo di umanità. Perché è alla parte debole per definizione (ma debole verso la vita o verso che cosa?), che vanno restituiti i mezzi per accedere a una leggibilità e visione del mondo, e finalmente ad almeno un piccolo potere, quello di rappresentarsi, di difendere ciò che esse hanno difeso a costo di tutto: il sopravvivere nonostante.

Tanto che diventa quasi un topos inarcare la trama sui mariti morti. Muore durante la prima guerra, quando lei ha tre anni e fratello e sorella poco più, il padre di Norma. Muore, quando sua figlia ne ha dodici e lei 35, il marito di Norma stessa, quel Berto troppo dedito al bere che le parole invece le aveva, ed era un attivo fautore della rivoluzione operaia, e nutriva disprezzo nei confronti di una moglie capace solo di ammazzarsi di lavoro, dotata di una bassa linea di difesa: «Alla mancanza di istruzione sopperivo con l’onestà, la costanza e il lavoro». Nel vuoto di comunicazione entrano frattura e solitudine: «Berto non ragionava come me, era sempre vissuto in città, era andato a scuola, era istruito, ma del lavoro aveva un’altra concezione, diceva che io lavoravo per lavorare, senza intelligenza, senza un disegno superiore ed uno scopo, un traguardo».

Ma guarda la nemesi. Berto, da poco sfollato a Brindisi, si prende un’infezione mortale causata o dal latte di capra crudo o da un pelo di cane. A che è servita tanta istruzione se non gli è bastata per sopravvivere, e faccende di campagna “cruda”, di cortile, lo hanno ucciso? è Norma che resta viva, lei che dice “videi” al posto di vitelli, “cicirimicili” delle donne che ridono a vuoto, “scolava bucalete” anziché beveva tanto, dice “andare torziolon” per andare a zonzo, “chicchirichendo” per parlare a vanvera. Milani tiene le redini però, e quando è ora di descrivere i disordini politici fa dire a quella stessa Norma: «In città stavano cozzando due mentalità, due visioni del mondo», che per una illetterata totale è un bel saltino di qualità.

Il che ci porta a vedere meglio la struttura del racconto, che poggia sulla dialettica fra gli opposti. Non solo le donne e gli uomini. Ma la città e la campagna. L’istruzione e l’ignoranza. La ricchezza (che accomuna ideologie) e la povertà (che accomuna tutti i poveri). Gli slavi e gli italiani. Quelli che vengono “da fuori” e gli istriani nati in Istria. Il mare e la campagna. I fascisti e i comunisti. Il popolo e i poteri. I “partiti” e i “rimasti”. Pola e Trieste. I capi e i servitori. I violenti e i miti. Tutto il resto è un confuso passaggio di piedi, che hanno lasciato orme: i veneziani, gli austriaci, gli italiani, i tedeschi, e avanti un altro. Cadono capitelli e simboli, s’innalzano nuovi cementi, entrano nuovi colori, il nemico cambia camicia e nessuno è amico per chi resta lì a subire la parata, senza capire. Non ci sono, nella memoria e dunque nel racconto della protagonista, i fatti storici, che avvengono in un altro mondo, un “mondo di sopra” che le resta inaccessibile.

E in mezzo a questo duro remare rasoterra, la Norma di Milani che cosa fa? A Brindisi, vedova, si offre per le pulizie al Genio civile, e quando la figlia è da marito decide che non può sposare uno “della Bassa”, e trova modo di farsi trasferire a Firenze dove è emigrata la sorella. Lei pulisce sempre uffici e cessi. Ha fatto lasciare alla ragazza il lavoro alla Standa, posto equivoco per la possibilità di sguardi maschili, e – in perfetta continuità e consapevole fedeltà all’esempio materno – la tiene in casa a rassettare e rammendare. Di madre in figlia, e nipote, di donna in donna, si replica dunque un modello conservativo: meglio stare ferme al proprio gradino, più è in basso meno rischio c’è di cadere ancora più giù. Non arriva riscatto là dove la narrazione si concentra su una miseria bastonata, profonda e inarticolata.

Come controprova, ecco il secondo racconto che fu pubblicato da Sellerio in accoppiata, Impercettibili passaggi, ambientato nel periodo post-esodo, dove per i “rimasti” italiani è centrale l’insegnamento della lingua, e la lettura è indicata ai giovani come strumento di qualche libertà, anche fittizia, ma soprattutto come linfa della vita: «Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità della cittadina nella facoltà che più la caratterizzava, l’uso della parola orale e scritta». E subito dopo: «Ho bisogno di una realtà colma di significati, di una realtà fatta di nomi, con i nomi le cose più insignificanti trasformano se stesse nel meglio, tornano a noi cariche di tutto l’umano che abbiamo investito in loro».

Si son fatti paragoni illustri per situare il taglio culturale, narrativo e di scrittura della Milani. Si possono elencare antecedenti, paralleli, scuole, padri e qualche madre. Ma potrebbe essere lei stessa la pietra di paragone. Come scrive Ezio Mestrovich nel testo critico uscito nel 1996 come prefazione a L’ovo slosso, e che qui è ripreso a chiusa del terzo volume, viene da Milani «l’offerta […] di una possibile patria per i senzaterra dell’Io, di un possibile Mito, di una possibile identità che sottragga all’indifferenziazione. Non è affatto insolito che l’offerta venga dalla letteratura, ma è la prima volta che viene porta a questa fetta della dimenticata gente istriana. E ha tutte le pagine in regola perché se ne accorga il grande popolo dei lettori». A proposito di parole, eccone di buone.

 

Copertina;

 

Nelida Milani

Cronaca delle baracche

I: L’osteria della Parenzana

Ronzani, Vicenza 2021

  1. 376, euro 18.00