Per caute sopravvivenze

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Un piccolo dizionario

di Malagigio

 

OSCENO

 

Nessuna parola cade dal pero. La disciplina (una scienza? un’arte?) che studia l’origine delle parole è l’etimologia. Il suo santo protettore, Isidoro di Siviglia, nell’immenso Etymologiae sive Origines ci mostra innumerevoli volte che le etimologie migliori sono quelle inventate. Per esempio, dice che il pisello, nel senso dell’ortaggio, si chiama così perché serviva a pesare l’oro, che si chiamava pis. Pesare l’oro coi piselli, si ammetterà, è un’idea sublime.

Erede di Isidoro, Carmelo Bene, a forza di sentirsi dare dell’osceno, se ne venne fuori che il lemma gli cascava a fagiolo; millantò un’etimologia: osceno era un nome greco, composto da os e skené, e voleva dire fuori scena: essere fuori scena standoci in mezzo: era lui! Osceno in realtà ha a che fare col sesso.

Giusto qualche esempio: Uma Thurman che in Kill Bill decapita, amputa e sventra 89 persone in venti minuti è qualcosa che si può far vedere ai poppanti. Ma far intuire agli scolari qualcosa su come passarono il tempo fino al canto dell’allodola Romeo e Giulietta, è osceno. È bene che i minori non sappiano cosa fanno i minori appena i genitori si distraggono. Questo si decreta negli U.S.A., dove sono molto presi da un inesausto lavorio in progress (o in regress) sulla questione del sesso nell’arte: il pisello, non nel senso dell’ortaggio, del David di Michelangelo è già stato censurato l’anno scorso.

Chi ha una certa età ricorda che in Italia anche nel secondo Novecento capitava come niente di essere accusati di oscenità: nel 1972, si mise al rogo un film ambientato a Parigi, con la sigla fatta coi quadri non proprio arrapanti di Francis Bacon e il divo di Fronte del porto che provava a fare cose appena intuibili col burro. Per vederlo, noi italiani scappavamo a Nizza o a Chiasso o a Graz, dichiarando vergognosi alla dogana che eravamo lì per comprare la cioccolata.

Da quando siamo cristiani (anche gli atei in tante cose lo sono), la minaccia dell’osceno è in ogni corpo esposto. Quando Elisabetta II nel 1980 visitò Pompei, si coprirono tutte le pitture dei nudi e la sovrana fu tenuta lontana dagli istruttivi postriboli. Alla fine, disse che l’avevano appassionata soprattutto i gessi dei cadaveri urlanti catturati dalla lava.

Ma le cose cambiano, o forse solo si complicano. Di recente il sindaco di Monfalcone ha detto che, almeno lì, è osceno stare in spiaggia vestiti. Sta pensando di multare chi si ostina. Non è ancora chiaro quale sia il reato, ma per queste cose da noi la fantasia abbonda. Intanto, resta ambiguo perché in spiaggia il topless sì e uno Dior no. Si dice che c’entri l’igiene, termine complicato e minaccioso. Perché un vestito pulito in un mare pulito potrebbe produrre un’epidemia è questione da commissione parlamentare.

Magari qualcuna delle signore vestite al sole è afgana, fuggita da un posto dove i maschi giudicano oscena una donna che suona il violino. Noi l’Afghanistan, dopo una guerra di vent’anni, l’abbiamo lasciato senza un perché al punto di partenza, solo con molti più morti. Questo non ci suona osceno. Al momento ci turba il sovrapprezzo di 50 centesimi al bar se chiediamo il toast tagliato in due.

Torniamo in spiaggia: corsi e ricorsi, direbbe Vico. Quando l’Inghilterra era il centro del mondo, il dott. Russell di Brighton convinse tutti che i bagni al mare erano un toccasana. Ne parla anche Jane Austen. Ma che ci si dovesse spogliare per una nuotatina era fuori discussione. Come ampie meduse arenate sulla battigia, le signore stavano in acqua oscillando al centro di una rosa di gonne, vesti, sottovesti e perfino crinoline.

Di questi tempi dunque, per chi volesse fare come 007 il bagno in frac, può essere utile portarsi in spiaggia una copia di Persuasione o di Orgoglio e pregiudizio. Non perché si possa pensare che sia tra le letture del sindaco di Monfalcone: solo per mostrare che non è scritto in arabo.