I camion delle meraviglie

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di Giuseppe O. Longo

 

Verso la fine della seconda guerra mondiale avevo quattro anni e abitavo a Forlì. Una mattina d’estate uscendo di casa avevo trovato la via Gualtieri ostruita da un enorme camion e rimorchio giallo con il nome Gondrand sul telone, e ne era sceso un giovane con l’aria foresta, gli zigomi alti, gli occhi verdazzurri e i capelli chiari, lunghi e lisci, fermati da un semicerchio di lucido acciaio. L’impressione che provai davanti a quella creatura meccanica arcaica e gigantesca, di cui il giovane pareva essere il fedele servitore o meglio una trascurabile appendice, non riesco a richiamarla, ma dovette essere grandiosa. E di altri camion è piena la mia memoria: i Ford e i Bedford degli alleati che sfilarono per il corso al passaggio del fronte, un po’ buffi e deformi ma dall’aria cordiale, carichi di Indiani col turbante e con la pelle del viso che vedevo per la prima volta così scura nel lampeggiar dei denti bianchi tra le barbe nerissime. Quei camion furono messi a riposo lungo il muro perimetrale della caserma, e lì noi bambini si andava a gironzolare, poi saltava sempre fuori un americano che ci dava una cioccolata, sicché i Ford e i Bedford hanno nella mia geofisiologia interiore quel gusto dolce e intenso, che conoscevo per la prima volta. I miei preferiti erano però gli eleganti e robusti GMC, che in gran numero, abbandonati o venduti dalle truppe d’oltreoceano, restarono in Italia e per lungo tempo dopo la guerra continuarono a circolare, aggiustati e rattoppati e riverniciati, quasi indistruttibili. I GMC erano belli per quel muso proteso, affusolato ed elegante, da alligatore, e sul davanti i fanali come occhi astuti e la griglia a riparo del radiatore, che sembrava proprio munita di denti pronti a mordere e a lacerare: insomma era lo splendore del coccodrillo scaglioso e indolente che si offriva alla mia adorante contemplazione. Un muso bello e pericoloso, fatto apposta per eccitare emozioni e spremere adrenalina. Nonostante il mio amore sviscerato e quasi carnale per gli affilati GMC, dovevo però ammettere che i più impressionanti erano i Maciste, enormi autocarri sbrindellati e possenti che trainavano uno speciale carrello con decine di piccole solidissime ruote dalle gomme piene, su cui troneggiava un rosseggiante carro ferroviario coi respingenti protesi e le lucide ruote bloccate da grossi cunei. Ogni tanto uno di questi imponenti convogli percorreva, lentissimo e sbarellante, le strade cittadine con ruggito uguale e profondo, minaccioso, amputato il camion del cassone, e questa mutilazione gli aggiungeva imponenza. Quando il Maciste era fermo, noi bambini ci arrampicavamo sul predellino impregnato di acre bitume, sui vasti parafanghi stuccati e ristuccati, dov’erano affastellati rotoli di funi d’acciaio annerite dal tempo e masselli di durissimo legno sporco di grasso, ci afferravamo a certi lucidi appigli e tubi e opercoli e maniglie imbrattate di morchia, il tutto pesante, indeformabile, duro: e finalmente, attraverso le larghe fessure del cofano, potevamo vedere il motore complicato e mostruoso, esalante un composito odore di nafta, olio e carbone, e il calorico riverbero che ne usciva ricordava le fucine dei fabbri o addirittura l’inferno, che le suore ci descrivevano con tanta dovizia di particolari. E pensare che una macchina così, per un’imprudenza mia o un suo scarto casuale, avrebbe potuto storpiarmi o forse stritolarmi con la noncuranza tipica delle macchine di ferro nei confronti della tenera carne, e mi vedevo nell’atto di descrivere a me stesso la mia morte per mano di quell’immane motore, che ora con gran fremito e rombito veniva riacceso, mentre noi ragazzi scendevamo a precipizio dal fianco della vibrante screpolata montagna. Incuranti del rischio, seguivamo il convoglio urlando e ballando sull’acciottolato bollente dell’estate, i più audaci attaccandosi a certi anelli posteriori da cui pendevano funi, ganci e filacci di stoppa bisunta, inebriandoci dell’aromatico fumo di scarico. Era la nostra droga.