David Grossman, la vita gioca con me

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Dichiaratamente ispirato alla vita di Eva Pani

di Diego Zandel

 

Nahir, una comunista ebrea originaria di un paese, Čakovec, al confine tra Croazia, Ungheria e Austria, oggi in Croazia ma in passato in Ungheria con il nome di Csàktornya, il romanzo La vita gioca con me dell’israeliano David Grossman, edito da Mondadori, ne ripercorre le tappe con una narrazione che è il frutto dei suoi incontri con la protagonista, che qui assume il nome di Vera.

La donna è stata una sorta di eroina della Jugoslavia, prima come partigiana, poi come reduce dal gulag titino di Goli Otok, al punto che Danilo Kiš le ha dedicato una serie televisiva nella quale racconta la sua terribile esperienza, dopo la quale ha scelto di andarsene dalla Jugoslavia per vivere in un kibbutz in Israele. Ed è qui che Grossman la conosce. Lo ha raccontato egli stesso in una intervista a Donna Moderna: «Un giorno mi telefonò e disse “David!” con una voce buffa, decisa. Mi raccontò di lei, dei suoi parenti, come se fossi un membro della famiglia. E alla fine mi chiese: “Non voglio disturbarla, ma posso richiamarla ogni tanto?”». Quello fu l’inizio, dice Grossman, di un’amicizia durata vent’anni, fino al 2014, quando Eva è morta a 97 anni. «A poco a poco, di telefonata in telefonata, Eva si apriva: riaffioravano i ricordi e l’amore e la pena per il marito morto cinquant’anni prima in prigione, accusato di essere una spia di Stalin».

Prima di entrare nel merito della sua storia personale è bene dire che il romanzo mette insieme tre generazioni di donne, quella di Eva, quella di sua figlia Nina e quella della nipote Ghili, figlia di Nina e di Rafael, uomo di cinema che ha trasmesso alla figlia la stessa passione e insieme decidono di trarre un docufilm del suo internamento a Goli Otok. Bisognerà aspettare la parte finale del romanzo perché il lettore si cali negli orrori – che la stessa Eva affermerà essere peggiori di quelli di Dachau – di Goli Otok. C’è prima tutta la preparazione del film che implica ovviamente, nel finale, un viaggio nell’Isola Calva, preparazione che serve al narratore per impostare i rapporti tra le tre donne, in particolare quello assai problematico tra Eva e sua figlia Nina.

Quest’ultima, nonostante il suo matrimonio con il tranquillo, saggio e aperto, ma anche innamorato, Rafael, e l’esistenza della loro figlia Ghili, appare una donna sbandata, dedita al sesso col primo sconosciuto che capita, a fughe da casa, talvolta lunghe e in altri paesi, anche se ogni tanto ritorna. Un comportamento che Nina addebita alla madre verso la quale nutre una sorta di rifiuto, se non di odio, per averla essa abbandonata quando aveva sei anni e mezzo, dal giorno cioè del suo arresto che l’avrebbe vista essere deportata a Goli Otok. Nina, pur crescendo, diventata adulta, non se ne capacita, nonostante sia al corrente che, se è stata abbandonata alla mercé della strada, non è stato per uno ghiribizzo, una debolezza del momento, una scappatoia alla responsabilità materna, ma in ordine a un’accusa che nella Jugoslavia di Tito, dopo l’espulsione di questa dal Cominform nel 1948, significava la morte civile. Migliaia di comunisti di ispirazione stalinista, o semplicemente sospettata tale – come vedremo nel caso di Vera – hanno fatto quella fine. Il rifiuto della madre è tale, a un certo momento, che lo stesso marito, Rafael, le grida: «“Tua madre non ti ha abbandonata. Anche lei è stata data in pasto ai cani. è stata buttata in un campo di prigionia, condannata ai lavori forzati. Non aveva scelta”. “Vai a spiegarlo a una bambina di sei anni e mezzo” ha ribattuto Nina, interpretando il proprio ruolo. “Non hai più sei anni e mezzo” ha obiettato Rafael. “E invece sì” ha sentenziato lei.»

Altro elemento importante, direi fondamentale, nella dinamica della storia è il grande amore di Eva per suo marito, il primo e indimenticabile Miloš, un serbo, figlio di contadini e padre di Nina, il cui ricordo non ha mai neppure oscurato il secondo matrimonio della donna, in Israele, con Tuvia ormai arrivato al traguardo dei cinquant’anni, al contrario di quello con Miloš, morto suicida in carcere, a causa delle percosse e dell’umiliazione per l’inesistente accusa di tradimento, dopo pochi anni di matrimonio.

Era già morto quando l’Udba, la polizia politica di Tito, ferma Vera e, dandole della troia, minacciandola, malmenandola, le chiedono di denunciare il marito quale spia di Stalin. Ma lei si rifiuta di sporcarne la memoria e l’onore con un’accusa che sarebbe stata una menzogna. «“Io a loro non interessavo molto” dice Vera “Volevano Miloš. Era lui importante. Durante la seconda guerra mondiale era stato un grande eroe, ed era comandante di squadrone di cavalleria di Tito, e volevano che sua moglie diceva davanti a tutti che Novak Miloš era traditore e sostenitore di Stalin contro Tito”». Nel caso lo avesse denunciato sarebbe stata libera. Ma no.

«Mio marito non era traditore! Era idealista! E uomo onesto, e puro!».

La traduttrice del romanzo, Alessandra Shomroni, ha usato per il linguaggio di Vera il modo di parlare degli slavi, cioè senza l’uso degli articoli che nel serbo-croato non esistono.

Tornando alla storia, rifiutandosi di denunciare il marito, anche la sorte di Vera si è trovata segnata e, di conseguenza, quella di Nina, che avrebbe conosciuto la realtà dell’abbandono totale. è questa una verità che emerge, nel romanzo, a poco a poco, provocando – quando vengono a sapere di aver preferito abbandonare la figlia piuttosto che rinnegare il marito già morto – uno sbandamento in Rafael e Ghili, che si trovano quasi a parteggiare per Nina. Una verità che emerge la sera prima del passaggio a Goli Otok, sessant’anni dopo.

Il trasbordo avverrà in un giorno che minaccia tempesta, tanto che il barcaiolo li avverte che se entro un’ora non si torna indietro, li avrebbe lasciati sull’isola.

Quando qui arrivano, prende avvio il ricordo dell’orrore fin dall’approdo su quel maledetto molo dove sbarcò prigioniera anni prima dalla nave Fonat. «Prigioniere già in isola stavano su due lati, formavano spalier, specie di corridoio, di picchetto d’onore, e noi dovevamo correre in mezzo a loro. Gridavano come bestie, sputavano, picchiavano con mani, con assi chiodate, con fruste. C’erano donne che hanno perso occhi, denti, o sono quasi morte. è così che siamo state accolte.»

Poi le descrizioni delle torture, l’abbruttimento a cui ti portavano, le provocazioni per infliggerti sempre pene maggiori, facendo leva sulle tue debolezze, lasciandoti credere che la guardia ti fosse amica per poi colpirti alle spalle. I morti per lo sfinimento e le percosse. Lo scenario, anni dopo, è ancora sconfortante. Vera ritrova la sua baracca. «è tutto brutto, come è brutta la violenza. Ruggine e cenere. Una spianata di cemento da cui spuntano sbarre di ferro contorte. Filo spinato ritorto dentro finestre rotte. Vera corre lungo le pareti, indica col dito, mormora i nomi delle prigioniere che dormivano in ogni letto. Ha gambe agili, come se avesse di nuovo trent’anni. Saltella su cumuli di resti di tizzoni, su assi pieni di chiodi, su brandelli di pneumatici e lattine arrugginite.»

Intanto il tempo peggiora, comincia a piovere, il barcaiolo se ne va, incurante di loro, la vecchia Vera, la figlia Nina, la nipote Ghili e Rafael. Sarà l’occasione, lì sull’isola, di una resa dei conti. «Non avrei resistito neanche un minuto in questo posto. Come ha fatto Vera a resistere per due anni e dieci mesi?”» esclama Nina.

Così si verrà a capire che ce l’ha fatta per il pensiero di Nina, per la preoccupazione per lei che aveva dovuto abbandonare, per il desiderio di riabbracciarla, di riaverla con sé. è Nina che le ha dato la forza di resistere. Altrimenti si sarebbe lasciata morire: che senso avrebbe avuto continuare a vivere ormai?

Un grande romanzo, questo di David Grossman, che racconta i valori della libertà e della speranza, in questo caso uccisi due volte da chi, con la sconfitta del nazifascismo, aveva vergognosamente illuso il popolo con la promessa di un’era in cui quei valori si sarebbero affermati, mentre invece di nuovo tornavano ad essere offesi e, in questo modo, addirittura sbeffeggiati.

 

 

David Grossman

La vita gioca con me

Mondadori, Milano 2019

  1. 293, euro 21,00