Di cosa parliamo quando parliamo di Carver

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Esperienza di lettura di alcuni racconti dello scrittore americano

di Anna Calonico

Mi hanno prestato il dvd di Birdman, un film di Alejandro Iñarritu con Michael Keaton e Edward Norton; l’ho guardato e mi ha lasciata piacevolmente perplessa. Un film che definirei banalmente “strano”, ma di una strana bellezza. I protagonisti sono attori di teatro che mettono in scena una storia di Raymond Carver, autore di cui, beata ignoranza, non ho mai letto nulla, ma che da tempo, quando vado in libreria, mi chiama dagli scaffali: “Psst, psst! Sono qui! Che ne dici di leggermi, finalmente?”

Pochi giorni dopo, in anticipo ad un appuntamento, aspetto l’ora giusta vicino ad una libreria: ci penso un secondo ed entro, vado a colpo sicuro e pago in cassa Di cosa parliamo quando parliamo d’amore (Einaudi, pp. 134, € 11, trad, Riccardo Duranti)

Che titolo impegnativo, Alberoni arrossirebbe con il suo Innamoramento e amore. Vien da pensare che si tratti di un librone serio e voluminoso, pieno di risposte e segreti, invece, dalle dimensioni, viene il dubbio che contenga solo un concetto banale e veritiero insieme come quello di Emily Dickinson: Che l’amore è tutto, è tutto ciò che sappiamo dell’amore.

Inutile tergiversare, lo apro, lo sfoglio, non mi decido a partire dalla prima pagina e, consultato l’indice, inizio da uno dei racconti più brevi, Piccole cose: una coppia si sta separando e i due litigano per tenersi il figlio, un bimbo ancora in fasce. Lui lo tiene per un braccio, appena sotto la spalla, lei per un polso, lo tirano e il pargolo strilla disperato. Neanche lui voleva cedere. Sentì il bambino scivolargli dalle mani e tirò con molta forza. E così la questione fu risolta. Accidenti (per non dire di peggio), è sempre così caustico, questo Carver?

Una volta a casa, mi metto comoda, una tazza di thè caldo accanto e la gatta sulle ginocchia, e inizio a leggere.

Leggo di miserie quotidiane, ma raccontate in maniera asettica, senza piangersi addosso, senza sentimentalismi: niente paroloni, solo fatti. Fatti nudi e crudi. I racconti di questo librino non sono pugni nello stomaco, ma più di una volta, leggendo pagina dopo pagina, mi sono sentita almeno uno scapaccione dietro la nuca: “Ehi, stupidina! Questa non è Jane Austen, è la vita!”

Continuo a leggere, ipnotizzata dalla freddezza bruciante delle immagini veloci che l’autore mi presenta: padre e figlio si rivedono dopo molti anni e il genitore decide di raccontargli perché ha divorziato da sua madre. È la solita squallida storia di un tradimento; il figlio non commenta, ma si alza perché deve prendere l’aereo, saluta e se ne va, dimenticando il regalo che l’uomo gli aveva comprato per i nipotini. Vogliamo trovare una morale a questa storia? Certo, la morale è la vita, schietta, ingiusta, dura, stupida. Una vita fatta di azioni e di parole. Troppe o troppo poche. Dette troppo presto o troppo tardi, o non dette. Tempi sbagliati. Non ci sono parole ad effetto a condurci per mano nelle profondità del cuore umano, ma ci sono i fatti che vediamo accadere agli altri, quando li guardiamo senza capire perché si comportano così e non parlano: Il fatto era che presto avrebbero dovuto fare un discorso serio. (Disse l’uomo cacciato di casa dalla moglie) C’erano un sacco di cose che andavano affrontate, cose importanti che andavano discusse. Ne avrebbero parlato ancora. Magari dopo le feste, quando tutto sarebbe rientrato nella normalità. (Ma sì, aspettiamo!) Per esempio, le avrebbe spiegato che quel posacenere dell’accidente in realtà era un piatto, maledizione. (Già, le cose importanti… infatti il racconto si intitola Un discorso serio)

Non si discute di sentimenti, ma tutte le azioni dei personaggi, così come le azioni di ognuno di noi, ogni giorno, sono dettate da sentimenti inespressi. In Un’altra cosa una donna caccia il marito di casa. Bene, pensa lui, è ora di andarsene da quella casa di matti! Fa la valigia e ci mette dentro la biancheria, le camicie, i maglioni. Poi prende la trousse e ci infila dentro il rasoio, lo spazzolino… e il sapone, il sapone è mio e me lo prendo io! E pure il filo interdentale! Come quando un bambino si arrabbia con i compagni di giochi e va via per far loro dispetto: “Il pallone è mio e me lo porto via!” Quindi, Carver ci fa vedere il comportamento banale di un uomo immaturo? Non credo. È il comportamento solo in apparenza fanciullesco di un uomo ferito, terrorizzato, indeciso, arrabbiato. Cosa può fare? Cosa può fare per fermare quel momento, per portarsi dietro la sua vita, per vendicarsi, per far cambiare idea alla moglie? Non riesce a fare nulla se non piccoli gesti dettati da sciocca paura, e tutto ciò che vorrebbe dire rimane sospeso nell’ineffabile: “Voglio dirvi solo un’altra cosa.” Ma non riuscì a pensare a quale potesse essere. Ha l’effetto di una goccia di soda caustica sulla pelle: male immediato.

In Di’ alle donne che usciamo il dramma che sta per svolgersi viene raccontato come fosse la telecronaca di una partita, anche se ho sentito Bruno Pizzul emozionarsi di più. Eppure l’effetto è forte, si sente crescere la paura delle ragazze e l’ansia dei ragazzi, si sente avvicinarsi veloce qualcosa di inevitabile e tremendo. Le frasi brevi e disadorne sono fredde solo in apparenza, e bruciano come il ghiaccio.

Siamo esseri pensanti: dopo aver letto un racconto di Carver, pensiamo a cosa voleva dire, perché i fatti che ci ha presentato, da soli, ad una lettura veloce sembrano banali, e non perché siamo troppo sentimentali per apprezzare una rigida esposizione di fatti. Sembrano banali perché lo scrittore cerca proprio le piccole cose per andare a fondo. Come si legge sul retro di copertina: “Di cosa parliamo quando parliamo di amore? Parliamo di un bicchiere di gin che si rovescia in una stanza dove discutono due coppie stanche. Parliamo di vecchi amici che forse per noia, forse per altro, commettono senza rendersene conto un delitto terribile. Parliamo di pasticceri a cui non hanno ritirato torte di compleanno. Parliamo di gesti che sembrano insignificanti, e invece sono in grado di restituire ad ogni vita tutta la grazia nascosta dietro la banalità della cattiveria e della paura.”

E questo amore? Questo famoso amore millantato dal titolo? Eccola, questa gran cosa che è l’amore (semplifico): In effetti che ne sappiamo noi dell’amore? Secondo me, siamo tutti nient’altro che principianti, in fatto d’amore. Diciamo di amarci e magari è vero, non ne dubito. Sapete, no, di che tipo d’amore parlo? Dell’amore fisico, quell’attrazione che vi spinge verso qualcuno di speciale e anche dell’amore per l’essere dell’altro, per la sua essenza, per così dire. L’amore carnale, dunque, e, bé, chiamiamolo pure l’amore sentimentale. C’è stato un momento in cui credevo di amare la mia prima moglie più della vita. Invece ora la detesto con tutto il cuore. Davvero. Voi come lo spiegate? Che cosa è successo a quell’amore? Vorrei tanto saperlo, che fine ha fatto. Vorrei tanto che qualcuno me lo dicesse. Voialtri siete insieme da diciotto mesi e vi amate, si vede benissimo, sprizzate amore da tutti i pori. Senonché tutti e due avete amato altri prima d’incontrarvi. E la cosa tremenda, la cosa veramente tremenda ma anche la cosa buona, la benedizione dal cielo, per dirla così, è che se a uno di noi succedesse qualcosa, l’altro, l’altra persona, soffrirebbe per un po’, sapete, ma poi il superstite ne uscirebbe e amerebbe di nuovo, si troverebbe presto un’altra persona da amare. E tutto questo, tutto questo amore di cui parliamo, diventerebbe solo un ricordo. Forse neanche quello. Sbaglio?