Esodo e disagio psichico

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In un libro di Gloria Nemec uno sguardo sulle condizioni degli esuli giuliano dalmati passati per il manicomio nel dopoguerra

di Diego Zandel

 

Lasciare, sapendo che sarà per sempre, la propria casa, magari quella avita, lasciare il proprio pezzo di terra, il paese dove si è sempre vissuto, gli amici, i parenti, lasciare le tombe dei propri defunti, non è facile. Lo è ancora meno se questo abbandono è frutto della paura, delle vessazioni, degli espropri imposti da un regime come quello titino che a dispetto dello slogan “Morte al fascismo, libertà ai popoli” che voleva caratterizzare il movimento da cui quel regime era nato, si è rivelato alla prova dei fatti non come liberatore, bensì, né più né meno, come una forza di occupazione.

È quanto hanno provato sulla propria pelle i 300 mila profughi istriani, fiumani e dalmati che dal 1945 a tutti gli anni Sessanta hanno subito questa sorte. Inevitabili i contraccolpi sulla psiche di molti di essi, con la conseguenza di vedersi costretti al ricovero in manicomio. La struttura che, in questo senso, ha visto transitare più esuli è stato l’ospedale psichiatrico “San Giovanni” di Trieste, per molti anni guidato da Franco Basaglia e nel cui archivio sono raccolti nomi e cartelle cliniche che, oggi, grazie alla messa a disposizione di Giuseppe Dell’Acqua, già direttore del Dipartimento di salute mentale dell’ospedale, sono diventate oggetto di studio da parte della storica Gloria Nemec. Il risultato è un libro di grande interesse umano e sociale dal titolo Dopo venuti a Trieste con l’indicativo sottotitolo Storie di esuli giuliano-dalmati attraverso un manicomio di confine 1945-1970, pubblicato nella collana 180 diretta dallo stesso Dell’Acqua, grazie anche alla sponsorizzazione del benemerito “Circolo di cultura istro-veneta Istria” presieduto da Livio Dorigo.

Il libro, per le storie drammatiche che racconta, per le tante esistenze ferite dall’esperienza dell’esilio, per i percorsi che, di fronte alla malattia, hanno portato molte famiglie alla disgregazione ulteriore, risulta particolarmente interessante e ricco di spunti di riflessione che il taglio storico dato dall’autrice aiuta a sviluppare (Gloria Nemec è docente e ricercatrice di Storia sociale). Perché non c’è solo il trauma dell’esilio che concorre alla malattia. C’è anche quello della vita durissima nel campo profughi, nel caso specifico di quelli triestini: la risiera di San Sabba, di infausta quanto allora di recentissima memoria per essere stato l’unico lager su territorio italiano a essere utilizzato dai nazifascisti come forno crematorio per un gran numero di prigionieri politici ed ebrei; il Silos del porto; il campo di Opicina e quello di Padriciano. E c’è, naturalmente, il fardello doloroso che gli esuli si portano dietro. Scrive la Nemec: “In questi primi anni dopo il conflitto erano ancora ben leggibili i freschi traumi riportati nel passaggio attraverso tempi di guerra e territori contesi. Le anamnesi, sovente ricostruite attraverso le testimonianze dei congiunti, davano forma a storie di vita di donne gravate da lutti, terrori e sentimenti di colpevolezza. Alcune avevano vissuto scontri armati nella loro abitazione, rastrellamenti casa per casa, scomparse inspiegabili e incomprensibili di parenti. Generalizzata appariva la condizione del lutto, segnata anche da un perdurante dialogo con i morti – modalità femminile allora ‘normalmente’ diffusa di elaborazione – diverse sofferenze si esprimevano con il ‘sentire voci’, talvolta con deliri a sfondo religioso o di tipo demonopatico.”

Ma si pensi anche solo a una storia come questa: «Anche un rovignese era stato brevemente ricoverato a seguito della scomparsa del figlio nel 1944; di lui sappiamo che ‘avrebbe dovuto essere tra quelli che dovevano essere gettati nelle foibe, ma non se ne fece nulla avendo egli promesso di pagare 10.000 lire.’». Il che la dice lunga sugli ideali rivoluzionari di certi partecipanti alla Lotta Popolare, considerando che hanno intascato il denaro senza restituirgli il figlio, per farlo cadere così in uno stato depressivo e persecutorio. Un giudizio confermato da quanto successo dopo: «Ma la situazione precipitò a fine 1946, a seguito della partenza di buona parte della famiglia e di ‘gravi patemi d’animo: arrestato dagli jugoslavi, fu tenuto in prigione parecchie settimane, la sua casa fu perquisita e asportati i mobili’. Venne internato per sei mesi ‘depresso e angosciato, esprime il timore di essere arrestato da un momento all’altro, nemmeno a Trieste si sente sicuro dagli jugoslavi».

Era più o meno una condizione generale dei ricoverati, in particolare donne che, a parte i deliri e le irrequietezze, si rifiutavano di bere e mangiare per paura di essere avvelenate, opponevano “cieca resistenza” all’esame somatico, così come alle «terapie convulsanti per timore di essere uccise».

In questo libro trova risposta una domanda che non pochi hanno rivolto a noi profughi, e anch’io, pur nato in un campo profughi, a mio padre. E cioè: «Perché ve ne siete andati?». La situazione era tale, e lo era tanto più dopo il 1945, a guerra finita, quando si credeva che il terrore ormai fosse una pagina chiusa e invece lo si era visto riapparire, in casa propria, in forme ancora più aberranti e feroci quanto più la propaganda vantava il suo finto slogan di “bratstva i jedinstva”, cioè fratellanza e unità, tra i popoli, per uno dei quali però si era scelta la strada della persecuzione. Quella di migliaia e migliaia di Adamo ed Eva per i quali il loro paradiso si era trasformato in un infuocato inferno da cui andarsene.

Personalmente, per essere nato e aver vissuto i primi dieci anni in due campi profughi, quello di Servigliano (un ex campo di concentramento costruito nelle Marche durante la prima guerra mondiale) e quello di Roma, ho provato sulla mia pelle i rigori di quella vita, a cominciare dalla mia prima culla: una cesta di arance; poi l’abbandono di mia madre fino all’età di tre anni per essere stata mandata in sanatorio a causa della tubercolosi contratta in campo profughi. Ma, io, al contrario dei miei genitori, non ho sofferto lo squilibrio annichilante tra la vita di prima, quella in un casa monofamigliare a Fiume, Villa Laura, nel quartiere di Cantrida, affacciata sul Quarnero – che avrei conosciuto ormai grandicello – per affrontare la via crucis delle prime provvisorie sistemazioni, a partire dal campo profughi di Udine. «L’approdo ai campi» scrive la Nemec «sottolineava con drammatica evidenza l’entità della perdita: di case modeste ma ariose, aperte alle reti parentali e comunitarie, del paesaggio delle origini, delle attività e degli status precedenti. Pesanti disagi come freddo, mancanza di igiene, promiscuità, impossibilità di relazionarsi normalmente tra i membri della famiglia – dimensionata e ristretta sulla base degli spazi assegnati quando non divisa tra uomini e donne – furono solo la parte materiale di una più ampia condizione di spaesamento e isolamento.»

E interessante anche notare quanto contraddittorio fosse il sogno socialista per cui molti avevano combattuto e la realtà fatta di espropri e persecuzioni, di esistenze piegate a condizionamenti, obblighi, punizioni, che, al contrario di quelle metafisiche legate, secondo la propria credenza, al fato o a Dio, discendevano direttamente dalla volontà unilaterale, oligarchica, dittatoriale, di alcuni uomini legati a un partito e per niente affatto quella democratica e popolare dei principi falsamente e ipocritamente ispiratori.

Infatti, dopo i primi anni di fuga della gente (i miei genitori fuggirono nel luglio del 1947) ecco sopraggiungere la stagione degli arrivi di massa dalla zona B, di gente che sotto il tallone del socialismo reale aveva vissuto i primi dieci anni, quindi già non poco. Annota la Nemec: «Una prima accelerazione si registrò a seguito delle elezioni del 16 aprile, ma il grande esodo prese le mosse dalla nota bipartita dell’ottobre 1953: altre 20.000 persone giunsero a Trieste, nel giro di tre anni, in gran parte determinate a restare. (…) Prima della nota dell’ottobre 1953, dalla zona B si erano trasferite 17.000 persone; entro l’aprile 1956, altre 17.677 abbandonarono i territori ceduti alla Jugoslavia, alle quali si aggiunsero i 2.748 provenienti dal muggesano e circa 3.000 sloveni e croati istriani, coinvolti nel meccanismo delle partenze.» Bene, venendo ai ricoverati in manicomio: «L’osservazione medica nei campi profughi aveva modo di riscontrare che lo stato di salute degli ultimi era peggiore di quello di chi era giunto da qualche tempo. Nei collegi e ricoveri per minori approdavano dall’Istria bambini (notoriamente pericolosi antirivoluzionari e fascisti della prima ora, n.d.r), gracili, invasi da parassiti, in condizioni pietosissime. Nel Silos, nei centri di raccolta sull’altipiano carsico (Padriciano, Villa Opicina, Prosecco), nei campi profughi cittadini di Campo Marzio e San Sabba, era possibile tenere l’emergenza sanitaria sotto controllo, se si attuava l’allontanamento dei bambini, dei tubercolosi e predisposti, degli anziani in gravi condizioni, degli instabili di mente.»

A conti fatti, per restare a questi ultimi: «Il superamento della cifra di 1000 degenti dell’ospedale psichiatrico provinciale si ebbe nel dicembre 1952: era acquisizione destinata a stabilizzarsi per tutto il decennio, con un andamento degli ingressi tra le 606 unità dal 1958 (minima) alle 754 nel 1956 (massima). Ma ad essere interessati al ricovero dei profughi furono comunque altri ospedali psichiatrici: Venezia, Cologna veneta, Padova, Perugia, Reggio Emilia, Siena, Cuneo, Imola, Milano, Napoli e Volterra andarono ad aggiungersi a un sistema di succursali già collaudato.»

Vorrei concludere con un’ultima citazione del libro, tra le tante che meriterebbero di essere portate, premendomi in questo modo esprimere l’importanza di un libro che merita di essere letto tutto: «Nelle biografie degli esuli, l’approdo a Trieste o in altri contesti di ricezione viene spesso definito come atto di nascita di un nuovo calendario: si tratta di una metafora che allude a una frattura profonda nella storia personale e famigliare, particolarmente sentita dalle generazioni protagoniste, spesso destinata a rimanere in una sofferta interiorità mentre si spingevano le generazioni successive ad adattarsi velocemente alle strutture dell’accoglienza, a negare sgomento e trauma, a vivere l’esilio come opportunità di modernizzazione. Ma è lecito pensare che quella lacerazione per diversi soggetti non fu ricomponibile, che laddove le forze – individuali e di coesione delle strutture famigliari e comunitarie residue – vennero a mancare si aprì un percorso di progressiva emarginazione e alienazione.»

Stante così le cose, devo dire che per fortuna, a molti profughi e figli di esuli che comunque hanno vissuto come me la realtà dei campi profughi, è andata bene. Tanto più me ne rendo conto quanto più libri come questo di Gloria Nemec ti mettono a contatto, nella visione obiettiva di un occhio esterno e di una studiosa abituata ad andare oltre i dati trattati, con un mondo del quale, facendone parte, hai avuto solo, inevitabilmente, una percezione parziale: quella limitata dal tuo sguardo, dalle tue proprie emozioni, dalla memoria dei racconti dei tuoi cari. Uno sguardo d’insieme, come in questo caso, ti rende più consapevole della pagina di storia che hai attraversato.

Grazie a Gloria Nemec, grazie a Giuseppe Dell’Acqua per aver messo a disposizione l’archivio dell’ospedale psichiatrico San Giovanni di Trieste, grazie all’amico di vecchia data, Livio Dorigo, con il quale abbiamo condiviso per qualche anno l’esperienza del Villaggio Giuliano-Dalmata di Roma, e le idee che si rifanno a quei valori di Giustizia e Libertà della sua Pola operaia e che la Jugoslavia di Tito ha ucciso per aver perso, lungo il cammino, quei tratti di profondo umanesimo e di umanità che devono nutrire l’azione dell’uomo mentre la compie, non solo limitarsi a pura enunciazione che si fa slogan com’è stato per quelli che da ragazzo, tornando in Istria e a Fiume, nelle terre avite, ho trovato vergati a vernice sui muri delle case o in lettere di ottone sui tanti monumenti, ridotti ormai a vuota e dimenticata retorica.