Il simbolismo mistico

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Una mostra alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, proveniente dal Solomon R. Guggenheim Museum di New York

di Graziella Atzori

 

Possiamo considerare l’arte, in tutte le sue manifestazioni, come specchio della vita. Quanto più terso è lo specchio, tanto più essa potrà rimandare noi a noi stessi con fedeltà, dando inizio a un processo conoscitivo essenziale. In tal senso la bellezza è funzione della verità. Quest’ultima nel postmoderno è diventata terreno minato, non siamo più certi che una verità esista o meriti essere ricercata. Il Simbolismo mistico, sviluppatosi in Francia sul finire dell’Ottocento, pone l’accento su tali nodi del pensiero, focalizzandosi sul mito, sempre in grado di trasmettere contenuti animici che non tramontano, aventi le caratteristiche del Vero. La vita quindi sembra riproporre se stessa attraverso immagini che si rinnovano di tempo in tempo.

Una mostra, intitolata Simbolismo mistico. Il Salon de la Rose+Croix a Parigi 1892-1897, è stata allestita negli spazi della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, dal 28 ottobre 2017 fino al 7 gennaio 2018. La rassegna ha riproposto le tematiche suesposte, portando il visitatore a scoprire la valenza di un movimento che fino ad oggi non aveva trovato visibilità museale.

L’evento, trapiantato direttamente dal Solomon R. Guggenheim Museum di New York, è stato curato da Vivien Greene ed ha potuto contare su una quarantina di opere, rese più suggestive dall’allestimento su pareti a fondo rosso. Sono oli su tela e tavola, grafiche, sculture risalenti agli Anni Novanta dell’Ottocento. Vennero esposte in sei mostre a Parigi nel Salon de la Rose+Croix, atelier ideato dal critico Joséphin Péladan. Chi era costui? Non facile tratteggiarne in sintesi la figura, come risulta problematico definire chi furono (chi sono?) i Rosacroce. La critica ufficiale non entra nel merito, si limita a includere il personaggio e la corrente entro il composito filone simbolista. Il Simbolismo rimanda a un figurativo “non reale”, ma capace di decriptare la realtà, svelandone il senso riposto. Rosacroce è quel movimento sotterraneo che nei secoli ha interpretato il Cristianesimo in chiave esoterica, il cui filo conduttore è la figura femminile, icona della Sapienza, strada verso Dio. La Donna sana la frattura fra Umano e Divino, fino alla loro ricongiunzione. I poeti del Dolce stil novo toscano, Dante in primis, rientrano nel novero dei Rosacroce, costituendone il preludio. Rappresentazioni dell’inferno dantesco sono presenti in mostra.

Le donne misteriose, fluttuanti, eteriche come nella Jeune Sainte di Henri Martin o quelle assolutamente sensuali di Charle Maurin nei suoi due quadri Aurore; il mito dell’androgino; il dramma di Orfeo ed Euridice ripreso da Alexandre Séon e da Pierre Béronneau (dunque il recupero del femminile dell’Essere per realizzare la completezza e la totalità del Sè); la rivisitazione del neoplatonismo nei pittori pre rinascimentali, detti Primitivi; la religiosità estatica e misterica dell’ultimo Medioevo sono i motivi ricorrenti dei mistici ottocenteschi. Gli artisti provenivano da svariate nazioni europee: Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Italia, Olanda, Spagna e Svizzera. Sono, più noti e altri meno noti: Antoine Bourdelle, Rogelio de Egusquiza, Jean Delville, Charles Filiger, Fernand Khnopff, Charles Maurin, Alphonse Osbert, Armand Point, Georges Rouault, Carlos Schwabe, Alexandre Séon, Jan Toorop con la sua magica Nuova Generazione immersa nello spirito della natura, Ville Vallgren e Félix Vallotton (magnifica la sua xilografia La beau soir, con un sole al tramonto esplosivo, efficacissimo in bianco e nero). Essi soggiaciono al fascino e al culto dei misteri antichi collegati all’ermetismo, alla mitologia intesa non più come favola e fantasia, ma allegoria che vela i concetti.

Josephin Péladan, (Lione 1859 – Neuilly-sur-Seine 1918), cultore appassionato di Wagner, (di quest’ultimo è in mostra un ottimo ritratto) proveniva da una colta famiglia cattolica. Il fratello era un esoterista. Lo scrittore e critico ha inteso contestare sia l’Accademia fossilizzata sia gli Impressionisti disinteressati al mito. Nel Salon organizza sei mostre per collegare l’arte alla religione e alla spiritualità, quest’ultima colta anche al di fuori del Cristianesimo canonico. Péladan si rifà al Martinismo (corrente fondata dal mistico francese Louis Claude de Saint-Martin, vissuto nella seconda metà del XVIII secolo); egli auspica la “restaurazione” (illuminazione) dell’uomo decaduto dal paradiso terrestre, attraverso una sofferta ricerca interiore di cui l’individuo è protagonista e fautore.

Gli artisti coagulati nel Salon incarnano gli aneliti perseguiti nel cammino iniziatico. Le tematiche predilette rimandano alla classicità, mentre lo stile si accosta al Romanticismo nella rappresentazione del sublime, che notoriamente include il macabro e il terrifico, come pure rivelazioni subitanee derivate dalla perdita e dalla morte. Se il classico predomina, lo stile se ne allontana, sperimenta anche pennellate veloci del gesto intuitivo, o innovazioni decorative che anticipano il Liberty, come si nota nel manifesto inaugurale della prima mostra tenutasi nel 1892, ad opera di Carlos Schwabe.

Interessantissimo binomio è la componente musicale, con le opere di Erik Satie (Honfleur, 1866 – Parigi, 1925). Cultore di occultismo, Satie in gioventù venne scartato al Conservatorio perché ritenuto poco valente. In seguito è amico e sostenitore di Péladan e Stanislas de Guaita, si affilia all’ordine Rosacroce e scrive musica per esso.

La mostra non ha rappresentato affatto una fuga dal quotidiano, come è stato affermato dai critici newyorkesi, che hanno scelto di privilegiare l’elemento fantastico o unicamente di evasione; essa piuttosto contribuisce, attraverso una simbologia archetipica, alla comprensione degli aspetti più sottili, invisibili del mondo e dell’uomo. Certamente induce ad un ripiegamento meditativo, all’io fenomenico porta messaggi provenienti dal superconscio, mette in moto la conoscenza intuitiva, per tutti accessibile se desiderata e voluta.

Le tendenze spirituali e intellettuali dei pittori non sono univoche; proprio la diversità di visioni costituisce l’elemento più invitante per il fruitore. Accanto a suggestioni che ridestano la dimensione trascendente più serafica, ad esempio con l’ingenuità del volto raccolto e casto della piccola santa velata e chiara, o con la presenza di angeli circonfusi di luce, si affianca la rappresentazione dell’oltretomba (ancora Orfeo di Béronneau) più cupa e sofferta, dove l’anima è lasciata sola, circondata da presenze mute e dalla natura più scarna, capace di offrire soltanto sterpi come riparo. O contempliamo Orfeo inerte su una spiaggia deserta (Séon).

Cattolici e anticericali qui si danno la mano in una compresenza tollerante. Cristianesimo e Paganesimo sembrano essersi felicemente riconciliati. Tutto ciò non stupisce, i mistici hanno sempre saputo comprendersi e ritrovarsi nell’elemento che li accomuna: il sentimento dell’uomo visto come emanazione del Dio o degli Dei. Da ciò nasce la possibilità di un ritorno all’Origine, attraverso la gnosi e/o la fusione operata attraverso l’amore.

Chi non intende fuggire dalle problematiche giornaliere ma si pone in ricerca, teso alla scoperta di senso e, per quanto suoni impopolare, di Verità, dimenticando momentaneamente ogni contingenza, nella mostra troverà più di un elemento capace di rispondere ai quesiti esistenziali. Le immagini parlano giungendo oltre la soglia della coscienza abituale. La riflessione sulla morte è un punto fermo per avvicinarsi alla saggezza. La consapevolezza del limite richiama, per contrasto, l’illimite. Gli artisti vanno presi, goduti e ripensati in toto. Péladan promosse le mostre nel corso di sei anni per esprimere le tematiche viventi nel nostro pozzo interiore e nell’altezza del nostro Eden. I quaranta quadri in esposizione sembrano dirci che tutto è in noi. La godibilità è unita alla riflessione.