Di Dylan e dell’aureola

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Una bella, appassionata discussione fra favorevoli e perplessi

di Luca Zorzenon

 

 

Renzo Stefano Crivelli sul Ponte rosso n. 18 ha perorato la causa del Bob Dylan poeta e recente Nobel per la letteratura. Vorrei discuterne le ragioni. E intanto procedere con alcune premesse, a sgombrare il campo da possibili pregiudizi.

Nei giorni immediatamente successivi al conferimento del Nobel, una mia brava e seria studentessa (dal bel nome particolare, che rammemora il mondo dei poemi cavallereschi, Doralice, arpista eccellente) mi invitava a discutere in classe del caso. Ne nacque in aula un appassionato dibattito tra favorevoli e perplessi. Non importano qui i termini dello stesso, ma il fatto che studenti diciottenni di liceo abbiano sentito il bisogno di discutere su “che cosa sia letteratura”, piuttosto che rispondere sempre e solo alla domanda su che diavolo sia mai codesto “pessimismo cosmico”, che pure è questione importantissima se non la si riduce (e ancora troppo spesso avviene, nelle scuole) ad un’etichetta didascalica da mandare a memoria. Voglio dire che, intanto, Bob Dylan aiuta. E questo è senz’altro un punto a suo favore.

E poi voglio dire che, pur non essendone un conoscitore e frequentatore assiduo, so bene come musica e testi di Bob Dylan abbiano rappresentato e rappresentino un’importante stazione della cultura americana (e di riflesso europea) in particolare lungo gli anni ’60 e ’70 nella connessione con eventi e temi fondamentali della storia: dalle lotte sociali ai conflitti razziali, dall’imperialismo americano nel Vietnam, all’antimilitarismo, alla contestazione studentesca. A Dylan, in anni giovanili, meglio razzolando nel cortile di casa, preferivo comunque un profondo De André, un’epica popolare alla Guccini, il lirismo icastico (quando non con eccessive sbavature) o l’impegno mediato di un De Gregori, che peraltro a Dylan non ha mai nascosto il tributo.

Ognuno dei tre, tuttavia, non ha mai accolto bene la definizione di “poeta” cui ogni due giorni una critica musicale talora di entusiasmo facilone e di noiosa pervicacia richiedeva acconsentissero. E con motivazioni tutt’altro che banali e di falsa modestia. In particolare, ne ricordo una con cui De André tagliò la testa al toro con la sintesi che gli era propria: “Anch’io ho scritto poesie prima dei vent’anni: dopo i venti chi continua a scrivere poesie o è davvero poeta o è un imbecille. E così io ho scritto canzoni”.

Che Bob Dylan sia persona colta e studiata, che debba lo pseudonimo all’ammirazione per Dylan Thomas, che la sua arte entri nell’alveo della beat generation e di altrettante ragioni che Crivelli propone non vi è dubbio alcuno. Il dubbio piuttosto viene quando spunta all’orizzonte Omero, con tutta la tradizione epica e melica delle origini occidentali della nostra letteratura. Vero che in esse musica e testo poetico potevano non esser scissi, e tuttavia, scissi, ci appaiono perfettamente autonomi. O meglio, visto che la musica è andata perduta, troppo pochi oggi, leggendo l’Odissea o un’ode di Alceo, si sentono in dovere di rimpiangerla. Veniamo all’epoca moderna. Il Trovatore, nel suo genere, è un capolavoro (financo del genere horror-thriller oggi tanto rinato): la predetta scissione ne travolgerebbe in un secondo la valutazione. Versi come «Svenami, svenami, ti bevi il sangue mio… / Calpesta il mio cadavere, ma salva il Trovator!», coll’algida precisazione, indispensabile all’onore della Leonora, che sì, il Conte l’avrà, ma «fredda, esanime spoglia» (quest’ultimo, per carità!, sostantivo: a dire: “semplice involucro corporeo ben che privo di qualsiasi anima e volontà intenzionale”), dicono di un Cammarano non proprio da antologia della letteratura. Eppure Il Trovatore verdiano è un capolavoro anche e proprio nella sua inscindibilità di musica e testo. L’una (grandissima) non sta senza l’altro (pur di per sé mediocre).

A rovescio in Dylan, nel rapporto: e con la precisazione che la musicalità folk di Dylan benissimo interpreta la popolarità sociale del suo genere. E così la vocalità inconfondibile, dai passaggi così caratteristicamente devianti verso lo scivolo dello stonato-parlato.

Quanto poi De André, Guccini e De Gregori (per confermar la triade) dovessero nei loro testi migliori alla frequentazione meditata di scrittori e poeti non è dubbio al solo leggerli e udirli, e si pensi solo alla rivisitazione di Lee Masters, o dei vangeli apocrifi, o alla collaborazione di Dalla e Roversi, o a quella di Pasolini e Modugno nella stupenda Cosa sono le nuvole, o anche al fatto che in una storia della ricezione del “treno” nella letteratura italiana (se uno proprio volesse impelagarvisi), almeno a partire dal carducciano barbaro de «Già il mostro conscio di sua metallica / anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei / occhi sbarra; immane pe ’l buio / gitta il fischio che sfida lo spazio. // Va l’empio mostro; con traino orribile / sbattendo l’ale gli amor miei porta», non potrebbe omettere certo l’esito tardo novecentesco (in ottimo e significativo rifacimento epico ottocentesco) de «E sul binario stava la locomotiva, /la macchina pulsante sembrava fosse cosa viva, /sembrava un giovane puledro che appena liberato il freno /mordesse la rotaia con muscoli d’ acciaio, /con forza cieca di baleno (in refrain…)». Eppure, slegati dalla ritmica percussiva e fin ossessiva, in tambureggiante crescendo, della ben nota musica, questi versi perdono molto non solo della loro bellezza ma ancor più del loro significato.

Insomma, il nostro è pur tempo di rimescolamento di arti e generi, di citazionismi trasversali, di superamento di confini, di eliminazione di territori e contesti definiti (e insieme purtroppo di vastissime dilatazioni dello sconfinato ego) che altro tempo a venire meglio valuterà se sterile esercizio di confusa decadenza o laboratorio di fertile innovazione. Immersi nel vortice fino al collo, senza la vana, presuntuosa tentazione di tirarcene su pel codino, piuttosto come il Cosimo Piovasco a voler guadagnar, invece, – e con decisione ribelle – l’altezza d’un ramo per guardar meglio la terra, senza perdere di vista, ancora, l’ammonizione di Benjamin a non confondere la “descrizione di una confusione” con una “descrizione confusa”, credo che il maggior merito del Nobel a Dylan potrà esser (finalmente!) di riaprire la discussione su “che cos’è la letteratura?”. Ne abbiamo davvero bisogno, visto che nelle librerie piovono caterve di libri dalle avvertenze “Romanzo!”, “Poesia!”, senza ormai più metro di misura (morte alla critica letteraria! che nei migliori, non a caso, era anche “critica della letteratura”), vanissime le avvertenze di Giulio Ferroni sull’estendere la centralissima – oggi – categoria di ecologia anche alla scrittura e alla scrittura stampata.

E poi una rassicurazione finale: la migliore canzone d’autore, americana, italiana o francese che sia e sia stata, non ha bisogno dell’aureola letteraria della poesia per esser una grande arte. Già i poeti stessi, e ben dalla metà dell’800, per Baudelaire se la lasciavano volentieri cadere nel macadam cittadino: quelli veri. Poiché a raccoglierla e a mettersela in testa ci avrebbe pensato solo «quelque mauvais poète» (“qualche poeta da strapazzo”).

E Dylan, invece, è un grande autore e interprete di canzoni.