Dietro la porta

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di Luisella Pacco

 

Sono stato molte volte infelice, nella mia vita, da bambino, da ragazzo, da giovane, da uomo fatto; molte volte […] ho toccato quel che si dice il fondo della disperazione. E tuttavia ricordo pochi periodi più neri, per me, dei mesi di scuola fra l’ottobre del 1929 e il giugno del ’30, quando facevo la prima liceo. Gli anni trascorsi da allora non sono serviti a niente, tutto sommato: non sono riusciti a medicare un dolore che è rimasto là, intatto, come una ferita segreta […]

Inizia così, Dietro la porta, una delle opere che compongono il “romanzo di Ferrara” di Giorgio Bassani, insieme a Cinque storie ferraresi (che comprende Lida Mantovani, La passeggiata prima di cena, Una lapide in via Mazzini, Gli ultimi anni di Clelia Trotti, Una notte del ’43), Gli occhiali d’oro, Il giardino dei Finzi-Contini, L’airone e L’odore del fieno.

Molte delle persone che conosco, pur “lettori forti”, e io stessa, hanno letto e amato Il giardino dei Finzi-Contini e Gli occhiali d’oro. Ben più raro, ammettiamolo, che di Bassani si legga e si apprezzi il resto. Per questo ho deciso di parlare di questo romanzo, relativamente breve e molto scorrevole, che si incastra perfettamente agli altri per le atmosfere della medesima città e per qualche accenno agli stessi personaggi (ad esempio, quando il protagonista si ammala di tonsillite, va dal dottor Fadigati…). Ed è, come le altre opere, una descrizione (non fredda, storiografica, bensì partecipata, con uno sguardo obliquo, trasversale, e per questo più autentico) di quale fosse la vita della comunità ebraica italiana prima della guerra.

Qui il protagonista è un ragazzo che frequenta la prima liceo, con la sofferenza e il disagio di chi già si sente – e vuol sentirsi – escluso, lontano. Ad esempio, il primo giorno non si affanna alla conquista dei banchi migliori, quelli a ridosso della cattedra, bensì osserva quasi con disgusto gli altri ragazzi correre mentre lui attende noncurante all’ingresso dell’aula. Infine, sceglie un banco in fondo, l’ultimo della fila riservata alle ragazze, accanto a una finestra. È afflitto soprattutto per aver perduto lo storico compagno di banco che gli stava accanto fin dalle elementari, Otello Forti, che è stato bocciato e si è trasferito a Padova. […] fin da principio avevo provato il dolore persistente, l’irrimediabile senso di vuoto dei vedovi. Hanno provato a scriversi ma, nonostante il sincero affetto, lo sanno entrambi che la fine dell’amicizia è segnata.

I nuovi compagni gli sono indifferenti quando non odiosi; le compagne sono o grasse o allampanate, o hanno il viso slavato e pustoloso o sono grigie e sgobbone, da considerarsi alla stregua di puri oggetti, di cose.

Bassani presenta un intero campionario di adolescenti, ciascuno con la sua storia (brevemente accennata ma incisiva). Ma sono due i compagni che emergono: Carlo Cattolica, perfetto in tutto, ricco bravo intelligente lucido, di cui il protagonista vorrebbe essere amico (qui il mondo degli “eletti” da invidiare e ammirare, tema spesso presente in Bassani, è rappresentato appunto da Cattolica) e Luciano Pulga, di famiglia povera, dall’atteggiamento enigmatico, strisciante, che arriva in classe qualche giorno dopo l’inizio della scuola. Appare sulla porta la figura di un biondino in pullover verde, pantaloncini corti al ginocchio, grigi, calzettoni color avana. Chi è? Uno nuovo, che cerca con lo sguardo azzurrino e freddo un posto dove sedersi. Viene mandato accanto al protagonista e da subito ne copia il compito con faccia tosta e abilità, allungando l’occhio sopra il grosso vocabolario che dovrebbe far da barriera. Sin da quel momento, il ragazzo ne è infastidito e attratto insieme, e si scopre incapace di reagire.

Rifiutato inizialmente da Cattolica, il ragazzo si lega a Pulga come per dominare qualcuno che sente più debole. Invece, a condurre il gioco è Luciano, che si insinua nella sua vita e nella sua famiglia fortunata e borghese. Diventano, almeno apparentemente, amici. Ma Pulga è invadente, sfacciato, parla di sé, del proprio padre che picchia la madre, della madre che quasi ne gode, della sua abitudine di masturbarsi almeno una volta al giorno, arrivando a mostrarsi nudo all’amico e chiedendogli altrettanto, anche per “valutare” (chinandosi un poco in avanti con aria distaccata, da medico) in cosa consista esattamente la circoncisione…

Una confidenza che lascia il protagonista a tratti disgustato ma del tutto maldestro nei tentativi di porvi un freno.

Ma dopo qualche tempo, anche Cattolica gli offre la sua amicizia e dichiara di disprezzare profondamente Pulga. Lo trova falso, bugiardo… E mette sull’avviso il compagno: lo sa che Pulga va in giro a denigrarlo?

Di chi fidarsi, dunque? Il ragazzo è amareggiato, stanco, coinvolto in situazioni che non comprende del tutto.

Cattolica propone di far cadere Pulga in una trappola. Lo inviterà a casa sua, lo farà parlare, mentre il protagonista potrà ascoltare non visto dietro la porta.

A sentire quali malignità Pulga è capace di vomitare, il ragazzo aprirà finalmente gli occhi?

E infatti, la trappola scatta, Pulga si lascia andare alle peggiori insinuazioni (al punto da dire che “la sua carriera può essere una sola”…) miste a risatine e sberleffi, e sparla pesantemente anche della madre dell’amico (Certo che è una donna così, l’estate, al mare, doveva combinargliene di tutti i colori, al marito anzianotto, le settimane che restava sola nella villa tra serve e bambini! Con quella bocca larga, “ingorda”, con quegli occhi languidi mezzo nascosti dai capelli – il petto era un po’ basso, d’accordo, però la “carrozzeria” in costume da bagno, meritava un viaggio apposta per andare a guardargliela […]).

Davanti a tutto questo, il protagonista si scuote, ma invece di affrontare Pulga, scivola via non visto dall’appartamento di Carlo e fugge. Non ha il coraggio di uscire da dietro la porta, non fa niente.

Eppure tutti noi sappiamo cosa può agitarsi nel suo cuore. Non è successo a ogni scolaro, a ogni studente, di vivere quei terribili drammi dell’infanzia e della prima paurosa giovinezza, in cui le amicizie sono totalizzanti, la fiducia eccessivamente riposta, i tradimenti insopportabili? Cose di cui gli adulti sorridono, ma che in quel tempo spezzano il cuore.

Da dove viene la malvagità di Luciano, il suo viscido gusto per la calunnia? Forse è solo maschera dell’amore, di un desiderio senza speranza, negato anche a se stesso al punto tale da stigmatizzare l’omosessualità con parole crudeli e stolte.

Mentre a casa la cameriera gli serve la cena che lui manda giù senza appetito, mentre scambia due parole vuote con i genitori, il protagonista rimugina su ciò che ha sentito e fatto.

[…] allora, finalmente, scuotendomi, mi ero staccato dal muro, avevo attraversato adagio la stanza, ero uscito nell’anticamera. Nel buio fitto (la voce di Luciano continuava a ronzare, di là, non dava ancora segno di voler smettere), ero sceso giù per le scale, avevo ritrovato in tinello la bicicletta, e quindi fuori, all’aria, nel buio diverso eppure non meno fitto di via Cittadella, a pedalare a testa bassa in fretta, sempre più in fretta. Viale Cavour, corso Giovecca: via via, senza voltare mai, come dentro un tunnel buio, dritto e senza fine…

Eccola, Ferrara, la vediamo, la pedaliamo in bici insieme a questo ragazzo fragile e offeso, la città che affiora e torna, torna sempre in Bassani, di vicolo in vicolo, di strada in strada, struggente, bella e fosca, intima e terribile come un amore. Una città che si fa simbolo (poche altre città sono entrate così prepotentemente e puntualmente nella letteratura), metafora della vita, delle sue ambiguità, delle sue fasi, tutte (qui, la dolorosa spietata adolescenza).

In un’intervista, lo scrittore Roberto Pazzi, ferrarese anche lui, ha usato queste parole: “Ferrara vive di rendita, è una bella allo specchio. Se ci pensate, Ferrara non ha nulla che ne interrompa lo skyline: i mari, simbolo per eccellenza dell’altrove, sono lontani; le montagne con i loro verticalismi non ci sono; Ferrara ha un infinito intorno…”