Trieste: non pervenuta

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Arte messa da parte (forse un po’ troppo)

di Roberto Curci

 

 

“Mostre? Mostre d’arte? Ma a che pro? Non ne resta, alla fine, che un catalogo…”. Così, all’incirca, parlò – parecchi anni fa – un Borgomastro di Trieste. È possibile che oggi la pensi allo stesso modo, dal momento che è ben raro che, nelle riviste specializzate che puntualmente pubblicano il calendario delle rassegne in corso, dalla A di Aosta alla V di Vicenza, faccia capolino la T di Trieste. Non pervenuta, appunto, per assenza di proposte espositive.

Che un catalogo ben pensato e ben fatto, a corredo di mostre possibilmente ben pensate e ben fatte, sia quanto rimane, a posteriori, di rassegne che magari hanno interessato, coinvolto, emozionato (e fatto muovere) migliaia e migliaia di visitatori, è indubitabile. Assieme, però, ai molti benefici – materiali e immateriali – che quelle rassegne hanno prodotto: da un incremento, spesso notevole, del turismo culturale al piacere intellettuale di una miglior conoscenza di un certo artista o movimento artistico.

Poca cosa? Forse. Fatto sta che a Trieste l’attenzione dedicata alle arti figurative – se non, talora, con mostre importate bell’e fatte, precotte e magari stracotte – è assai flebile e casuale. Parliamo, s’intende, non delle rassegne di piccolo e medio cabotaggio, devolute in massima parte ad autori di ambito e respiro locale, e comunque di per sé commendevoli, bensì di iniziative di forte attrattività, capaci di implementare quell’indiscutibile crescita del fascino che una città fin troppo mitizzata e tuttavia largamente sconosciuta sta esercitando a livello nazionale e internazionale.

Occorre tornare alla meritoria mini-sequenza di mostre dedicate negli anni Novanta del ‘900 ai maestri della Pop Art (per capirci) per reperire progetti espositivi mirati e ambiziosi, e di conseguenza ben ripagati: Rosenquist, Dine, Basquiat. O a certe mostre di forte impatto scientifico ed emotivo allestite in quell’inadeguata sede che è il Museo Revoltella: l’antologica su Leonor Fini (2009), in primis. Il che significa che, quando i nomi e le proposte sono di alto profilo, non è solo il catalogo – poi – a restare.

Ma sono eccezioni che confermano la regola della calma piatta sul fronte dell’interesse locale per quelle possibili iniziative, intelligenti e coraggiose, che contribuirebbero a irrobustire l’identità di una città obiettivamente priva di memorabili tesori d’arte autoctoni e dunque predestinata a essere soltanto la “città della Barcolana” o “della scienza”. Eppure il miracolo è accaduto in realtà urbane più piccine (Treviso, la fortunatissima serie delle mostre sugli Impressionisti), e tuttora accade, con gran successo di numeri e introiti – citiamo a caso -, a Rovigo (Palazzo Roverella), a Ferrara (Palazzo dei Diamanti), a Forlì (Musei di Sam Domenico), perfino ad Alba (Fondazione Ferrero) o a Mamiano di Traversetolo (Fondazione Magnani-Rocca).

Perché a Trieste no? Per il disinteresse di cui sopra e per il pensiero dominante che investire in cultura rappresenti comunque una perdita secca. Ma anche per altre ragioni. Proviamo a elencarne alcune, in ordine sparso.

1 – la disattenzione, o piuttosto il declino, di cui a Trieste le arti figurative soffrono, non solo a livello dei suoi reggitori (e quindi – domanda inquietante – manca l’offerta poiché scarseggia la domanda?). Fate caso alla rarefazione delle gallerie, all’estinzione dei critici e della critica, o all’irrilevanza della produzione artistica che, dopo la grande stagione dei Nathan, Marussig, Parin, Timmel, Bolaffio, Sbisà, Croatto, e la fiammata degli anni Sessanta (Arte Viva, Raccordosei, Reina, Cogno, Chersicla, ecc.), dà fievoli segni di mera sopravvivenza.

2 – la carenza , se non l’assenza, di congrui spazi espositivi, capaci di ospitare rassegne non solo concettualmente, ma anche fisicamente importanti. Al di là dell’ex Pescheria, guscio vuoto che richiede costosi allestimenti ad hoc per qualsiasi iniziativa vi si voglia ospitare, restano le nicchie insufficienti del citato Revoltella e della Sala Selva di Palazzo Gopcevich, essendo al momento di pertinenza regionale o, rispettivamente, statale due sedi di dignitose dimensioni e ben fruibili quali il Magazzino delle Idee e le Scuderie di Miramare.

3 – l’assoluta latitanza degli sponsor. Se a Forlì un certo istituto di credito non supportasse le eccellenti rassegne dei Musei di San Domenico, per le quali – magari destinate ad aprirsi nell’inverno a venire – il battage inizia con mesi e mesi di anticipo, quelle rassegne o non si farebbero o non sarebbero eccellenti. Ma è solo uno dei tanti esempi possibili. A Trieste, il nulla: contribuire al buon esito di una mostra prestigiosa pare significhi buttare i quattrini dalla finestra.

4 – la colpevole assenza di contatti istituzionali, e quindi di possibili sinergie – tanto più colpevole vista la privilegiata condizione geo-strategica di Trieste –, con i Paesi vicini: non solo Slovenia e Croazia, ma pure Austria e Ungheria. Da cui l’irrealizzabilità di mostre-scambio (un uovo di Colombo al quale evidentemente non si pone mente), che consentirebbero, per dire, ai triestini e non solo a loro di conoscere i tesori d’arte del Museo Nazionale o del Museo delle Belle Arti di Budapest, e agli ungheresi di ammirare i Nathan e i Marussig di cui sopra.

Indolenze ideative, mancanza di prospettiva e di progettualità, carenze strutturali complottano dunque nel negare a Trieste quanto virtuosamente avviene altrove in Italia, e non solo nelle grandi città d’arte. Si può sempre obiettare che sono tempi di vacche assai magre, ed è un alibi valido ieri, oggi e domani. In realtà si continua forse a pensare che non valga la pena di immaginare troppo in grande per ritrovarsi, alla fine, con niente più che… un catalogo.