OSSESSIONE TIMAVO

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Al fiume carsico è dedicato l’ultimo libro di Pietro Spirito

di Marina Silvestri

 

Scaffale narrativa, letteratura di viaggio, suggerisce la bandella di copertina. Sicuramente, ma c’è dell’altro che ne fa un libro suggestivo, ricco di informazioni storiche e geologiche, una sorta di ‘realtà aumentata’, una colta mappa interattiva. L’ultimo lavoro del giornalista e scrittore Pietro Spirito, Nel fiume della notte, presentato a Pordenonelegge. Un viaggio lungo il corso del Timavo, dalle sorgenti nella Val Malacca alle propaggini del monte Nevoso, alle foci a San Giovanni in Tuba, passando per le Terme Romane di Monfalcone; dalla Croazia, alla Slovenia, all’estremo lembo della laguna, seguendo il fiume carsico sia in superficie sia nel sottosuolo, dissertando di misteri, miti classici, leggende, e storiche spedizioni speleologiche che ne hanno inseguito il percorso nelle viscere della terra; una storia di successi e fallimenti, di attrazione fatale per uomini di scienza e fontanieri, umili minatori, cavatori e pompieri; di contadini che sentivano sul fondo delle doline la voce e il gorgoglio dell’acqua e il sibilo dell’aria che le piene scatenano; le ‘cloce’ che si formano quando il vento ascensionale contrasta la pioggia che penetra nell’abisso. Da oltre due secoli oggetto di studi ed esplorazioni, il suo sviluppo completo è a tutt’oggi ignoto.

«È simbolo- scrive Spirito – di ciò che unisce e divide, appare e scompare, di frontiere rese fragili e mobili dalla storia e di una natura che non si lascia addomesticare. Il Timavo nasce come fiume Reka nei folti boschi della Croazia, attraversa il parco nazionale della Valle dei Mulini in Slovenia, svanisce nelle voragini delle Grotte di San Canziano, passa sottoterra il confine con l’Italia facendo la sua comparsa qua e là in abissi profondi oltre trecento metri, per poi sgorgare improvvisamente dalla roccia e gettarsi nel Mare Adriatico alle porte di Trieste. Gli antichi lo consideravano sacro, qui si sviluppò il misterico culto del dio Mitra; Virgilio lo ha cantato nell’Eneide, e alle sue tormentate foci, cento anni fa, D’Annunzio mandò inutilmente al massacro i fanti dei Lupi di Toscana. » Lungo il suo tragitto, si sono accavallati secoli di guerre, genti, traffici, culture e religioni. Dagli antichi romani ai cavalieri ottomani, dalle guerre napoleoniche al primo e al secondo conflitto mondiale fino alla recente guerra d’indipendenza della Slovenia dalla Jugoslavia. È anche «una storia che mischia scienza, dramma e un pizzico di follia», scrive Spirito. Nel capitolo dedicato all’abisso di Trebiciano il libro ricostruisce la tragedia legata alla ricerca di una vena d’acqua da convogliare verso la città. La prima vittima fu Antonio Federico/Anton Frederick Lindner, esperto minerario, arrivato a Trieste dalla provincia di Padova dove era nato, come controllore dell’Ufficio Saggio dei Metalli e Prodotti Montanistici. Linder, che aveva già scoperto la Grotta Gigante, quando seppe nel 1841 del progetto dell’acquedotto del costo di un milione di fiorini, iniziò a scavare nei pressi dell’abitato di Trebiciano, sulla base di segnalazioni degli abitanti del posto che parlavano di «buchi soffianti nel bosco». «Assieme al fontaniere civico Giacomo Svetina e a una squadra di lavoranti, a colpi di mina e di piccone – racconta Spirito – Lindner riuscì ad aprirsi un varco nella roccia verso il basso, lungo i pozzi dell’abisso, fino a spedire il cavatore Luca Kralj (o Kral, oppure Krall) e il minatore Antonio Arich nell’enorme caverna dove scorre il Timavo e che oggi porta il suo nome. Sfinito dall’impegno e dalla fatica, si ammalò e morì pochi mesi dopo la scoperta. » Mentre il cavatore Luca Kralj morì nel 1866, durante l’esplorazione del Foro della Speranza, una cavità profonda più di duecento metri alle porte della città, calatosi assieme al fratello Antonio e ad Andrea Fernetich, Kralj. Non fidandosi del buon funzionamento di uno strumento elettrico attivato per far brillare una mina che avrebbe dovuto aprire un passaggio nella roccia, i cavatori, «convinti che l’esperimento fosse fallito, dopo quarantacinque minuti vollero scendere nell’abisso a vedere cos’era successo, malgrado il parere contrario degli altri componenti la squadra. Passato qualche tempo, non vedendoli tornare indietro, il minatore Antonio Mlatz e il pompiere Giovanni Cibron si calarono a loro volta nella grotta, incappando a – 130 metri nel gas di combustione causato dalla mina e dal cadavere di uno dei tre cavatori. La carica era esplosa come nella canna di un cannone, lasciando intatti il fondo e le pareti, spazzando quanto c’era sopra e saturando la grotta con il monossido di carbonio.» Poche settimane dopo, l’8 novembre, quattro abitanti di Corgnale/Lokev Antonio Mlatch, Michele Fonda, Giuseppe Lilla e Giovanni Mlatch, seguiti dallo stesso Matteo Kralj, «a dispetto dei divieti comunali» si calarono per recuperare i corpi e Matteo Kralj rimase a sua volta intossicato e morì. Il Foro della Speranza venne ribattezzato Grotta dei Morti e il Comune abbandonò il progetto. I resti degli sventurati furono trovati trent’anni dopo, nel maggio del 1894, da un gruppo di studenti Società Alpina delle Giulie, le ossa sono state composte in una nicchia solo qualche anno fa dagli speleologi del Club Alpinistico Triestino.

Spirito segue il corso del Timavo, accompagnato da persone amiche, Sergio Dolce, biologo, già direttore del Museo di Storia Naturale, Marino Vocci, che è stato sindaco del Comune di Duino Aurisina, compagni del primo tratto di viaggio, nell’ultimo dallo speleosub Duilio Cobol, assistito da Clarissa con cui si cala nella Grotta del Lago, dove è visibile prima di sfociare nel mare, ed ogni volta l’esperienza è diversa; nella memoria la figura del professor Walter Maucci, incontrato come insegnante sui banchi del liceo, autorità nel campo. «Lo ricordo come un uomo dal carattere schivo, con indosso l’immancabile camice bianco e, fra le dita, le inseparabili e terrificanti sigarette al mentolo North Pole.[…] Nonostante la quotidiana e distaccata frequentazione alunno-professore, per me Maucci rappresentava una specie di mito vivente: era come avere davanti Jacques Cousteau, Walter Bonatti, Fosco Maraini, Édouard-Alfred Martel, Folco Quilici, i grandi esploratori di terre e di mari le cui gesta, allora, e forse ancora oggi, erano motivo di ispirazione, un’indicazione verso percorsi rivelatori di chissà quale oscuro mistero umano.»

Il ‘fiume fantasma’ iniziò ad uscire dal mito nella prima metà dell’Ottocento quando presero i via ricerche finalizzate all’approvvigionamento idrico della città di Trieste in piena espansione; le ultime, a scopo scientifico – anche per studiare la fauna endemica – risalgono al 2009. «Il Timavo è fra i corsi d’acqua più misteriosi del mondo, ha due nomi, tre nazionalità e da oltre due secoli alimenta le speranze, i sogni e le ossessioni di quattro generazioni di esploratori e scienziati che tentano di svelarne i segreti. Dove vada e cosa combini durante il suo lungo viaggio sotterraneo è una sciarada non ancora risolta. Cercare il fiume sotterraneo – afferma Pietro Spirito – è come tentare di svelare il disegno di un prezioso affresco nascosto dietro uno spesso strato di calce, dal quale ogni tanto cade un pezzetto lasciando intravedere una bellissima, colorata parte dell’ordito misterioso. Per molti, questa caccia è una sfida irresistibile che può diventare una vera e propria ossessione.»

 

 

Pietro Spirito, Nel fiume della notte, Ediciclo Editore, pp. 144 euro12,50