Un altro Kubrick

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In mostra al Magazzino delle idee l’opera di Stanley Kubrik fotografo

di Paolo Cartagine

 

Orizzonti di gloria, Lolita, 2001: Odissea nello spazio, Arancia meccanica, Barry Lyndon, Shining sono alcuni dei capolavori che ci hanno fatto conoscere e apprezzare Stanley Kubrick regista cinematografico di fama internazionale (New York USA, 1928 – St. Albans Inghilterra, 1999).

Con la Mostra “Attraverso un altro obiettivo (Through a Different Lens)” – promossa dall’ERPaC Friuli Venezia Giulia al Magazzino delle idee di Trieste, visitabile fino al 30 gennaio 2022 – scopriamo invece un altro Kubrick, giovanissimo fotoreporter di talento.

Sono presentate oltre cento foto bianconero di grande formato risalenti al periodo 1945-’50, pubblicate soprattutto sul periodico Look Magazine e sulla rivista concorrente Life, nonché altre immagini inedite.

Dalle molte pagine di Look esposte alle pareti del Magazzino delle idee, notiamo che la rivista puntava su un’informazione diretta riguardante scene di vita quotidiana di persone comuni: al più una ventina di immagini corredate di didascalie e testi stringati affinché il servizio giornalistico, già alla prima occhiata, risultasse di interesse e di agevole comprensione da parte di un pubblico vasto.

Possiamo osservare in particolare la vita della New York del secondo dopoguerra dei ceti meno abbienti in metropolitana, al supermercato, per strada, ma pure personaggi importanti tra cui il Presidente Dwight Eisenhower, l’attore hollywoodiano Montgomery Clift e il pugile italo-americano Rocky Graziano, il circo e il mondo dello spettacolo.

Vi sono diverse buone ragioni per visitare la rassegna.

La prima, di carattere generale, è poter confrontare il mondo dell’informazione della carta stampata attuale con quello di allora, forse più semplice ma comunque strutturato su altri precisi canoni comunicativi, pubblicità compresa.

La seconda deriva dall’osservazione delle foto di Kubrick.

È evidente che lui studiava e pianificava preventivamente la narrazione fotografica con il duplice fine di cogliere al meglio l’essenza del reale già con lo scatto, e di restituirla poi in maniera piana ed efficace attraverso le immagini.

È altrettanto palese la sua predisposizione per il racconto visivo (photo-story) connotato da un uso personale della “ellissi” per arrivare al cuore dell’argomento trattato, il preannuncio di molte soluzioni innovative sviluppate da regista. È poi sufficiente lasciarsi trasportare dal sempre elevato livello di precisione, pulizia e sintesi delle foto con cui aveva affrontato la varietà dei temi assegnatigli dalla redazione, in altri termini la sua capacità di padroneggiare il linguaggio visivo.

Da acuto osservatore delle interazioni umane, Kubrick aveva capito che noi spettatori siamo maggiormente attratti da immagini dove compaiono nostri simili, e che le foto diventano ancor più significative quando incrociamo lo sguardo delle persone fotografate.

Nei ritratti non lasciamoci però assorbire dall’impressione istantanea che riceviamo o dal formulare valutazioni immediate. Cerchiamo piuttosto di decifrare l’insieme sconfinato del linguaggio non verbale della postura, nonché i segni del volto, il cosa potrebbe essere stato a plasmarlo così, dato che ogni fatto lascia una traccia, dagli occhi alla bocca e alle rughe attorno. Guizzi della mimica facciale altrimenti inafferrabili rimasti fissati nella pellicola e nella stampa.

In questo modo – nella preziosa risorsa che è il silenzio del frammento cartaceo rettangolare dell’oggetto materiale “fotografia”, e nella lentezza del nostro sguardo indagatore – possiamo instaurare una sorta di dialogo con coloro che appaiono entro i bordi (e con l’Autore) per chiederci: chissà qual era la storia di Mickey lustrascarpe a Brooklyn poco più che bambino? Come lo ha incontrato Kubrick? Dove doveva andare quel corpulento fumatore che sta sostituendo la ruota posteriore destra dell’automobile? Cosa ha spinto l’Autore a scegliere quell’istante per premere il pulsante della Leica cosicché lui è nello specchio con la showgirl Rosemary Williams? E lei viene ancora ricordata?

Interrogazioni, queste e altre, forse senza risposta univoca, che però aprono illimitati spazi interpretativi in virtù del “come” l’Autore ci ha consegnato quelle foto, contenitori di elementi ormai sedimentati ma che talvolta sfuggono al primo esame visivo, un insieme di valori formali che costituiscono la spina dorsale della storia mostrata (fatti, persone, eventi, situazioni), dove la personalità autoriale è lo strumento per arrivare al racconto.

Le sue foto sono archivi ottici rafforzati da stile preciso, da padronanza del mestiere e da tecnica fatta di azione.

Kubrick curava sempre le inquadrature fin nei minimi dettagli, in quanto convinto che «ogni fotogramma dovesse essere un quadro senza la necessità né di aggiunte né di sottrazioni».

Ne consegue che la terza ragione per recarsi alla Mostra è quella di avvicinarsi al fondamentale concetto di “inquadratura”, cioè allo spazio ripreso in un determinato luogo e in un certo momento, poi mostrato tramite foto e film.

Ma anche per apprezzare la sua grande abilità tecnica nel saper affrontare questioni concrete della foto di interni allo scopo di sfruttare, con opportune angolature e posizioni dei punti di ripresa, la luce ambiente senza ricorrere a sorgenti luminose supplementari.

Un apprendistato che gli tornerà utile nell’attività filmica: basti pensare alle atmosfere ovattate e realistiche degli interni a colori di Barry Lyndon girati a lume di candela.

Dunque la “palestra fotografica” degli anni giovanili fa da base a creatività, intuizioni e invenzioni del più maturo Kubrick regista, una lunga linea ininterrotta e multiforme di sperimentazioni preordinate a concretizzare le sue aspettative interiori.

Allora, il quarto motivo per immergersi nell’esposizione è trovare e percorrere i ponti fra il Kubrick fotografo e il Kubrick autore di cinema (alla Mostra c’è un suo cortometraggio dedicato al pugile Walter Cartier), un muoversi ideale tra le due forme comunicative legate all’immagine ottico-tecnologica da cui nasce l’interazione spettatore-prodotto: silenziosa, statica e frammentata quella fotografica, sonorizzata, dinamica e (in apparenza) continua quella filmica. Forme che richiedono due diversi tempi di lettura: a discrezione del singolo osservatore le sequenze fotografiche, all’opposto uguale per tutti gli spettatori del film proiettato in quanto dettato a priori dall’Autore.

Anche quando era passato stabilmente al cinema, Kubrick utilizzava la fotografia per prendere appunti, per comporre i relativi storyboard e facilitare la stesura dell’inerente sceneggiatura. Una fusione fra due sistemi di narrazione eterogenei per impostazione, organizzazione spazio-temporale, ritmo e velocità di visione, una contaminazione dunque fra discipline e mezzi diversificati che lo fa ulteriormente rientrare nel novero di coloro che hanno contribuito a espandere l’utilizzo delle pratiche dell’arte moderna.

Una mostra che è più della somma delle sue parti.

 

Stazione della metropolitana

West 81st

1947