Pasolini e i poeti di Trieste

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In un saggio di Cristina Benussi la presenza di P.P. Pasolini nella cultura letteraria di Trieste

Pasolini codifica una tradizione poetica giuliana autoctona che non era stata ancora definita

Il “cerchio magico” che Pasolini, Saba, Giotti e Marin avevano idealmente formato aveva la caratteristica unica di una fratellanza nella diversità

di Gianni Cimador

 

In I triestini il sabato non vanno a conferenze. Pasolini e la poesia triestina: Giotti, Saba, Marin, Cristina Benussi ricostruisce con uno sguardo panoramico e molto dettagliato cinquant’anni di cultura triestina, prima e dopo la fondazione, nel 1946, del Circolo della Cultura e delle Arti: è un luogo simbolico che raccoglie l’eredità degli scrittori vociani di Trieste, rappresentata emblematicamente da Giani Stuparich, che la rilancia nel secondo dopoguerra, quando la città vive un momento di grande incertezza e sente il bisogno di connettersi, con una propria specificità, al contesto nazionale, nel quale si sta configurando un nuovo rapporto tra scrittori e industria culturale.

La vicenda, umana e letteraria, di Stuparich, la morte di Umberto Saba e di Virgilio Giotti, il rapporto tra Biagio Marin e Pier Paolo Pasolini sono gli snodi di un racconto fitto di esperienze, anche molto diverse tra loro, che hanno creato una narrazione della città e le hanno dato una cifra distintiva: Benussi approfondisce il complesso intreccio tra la storia di Trieste e la biografia degli scrittori, nei quali si riflettono le diverse e contraddittorie anime della triestinità, che il CCA tenta di comporre e valorizzare, recuperando le tradizioni di associazioni e istituti distrutti dal Fascismo e ponendo le basi per un’attività culturale e artistica di ampi orizzonti, con la convinzione che «Trieste potrebbe avere domani una delicatissima e importante funzione di civiltà europea» e che, in questa prospettiva, la cultura si debba esprimere in un’azione pragmatica.

Tra il 1911, quando Stuparich arriva a Firenze in primavera, e il 1961, anno della morte dello scrittore, la letteratura triestina assume una fisionomia precisa per quanto ‘plurale’, tutt’altro che periferica, identificata già da Pietro Pancrazi nel 1930.

Le diverse opzioni letterarie implicano anche differenti scelte politiche e un serrato confronto fra ‘sodali’, rispetto ai quali Pasolini rappresenta una sintesi e una coscienza critica, inserendo i percorsi poetici di Giotti, Saba, Marin, contigui a quello dello scrittore friulano ma distinti, nell’alveo più ampio della riflessione sui rapporti tra lingua e dialetto e tra monolinguismo e plurilinguismo, che rimandano al dibattito sul concetto di ‘realismo’, in cui è impegnata gran parte della critica letteraria negli anni Cinquanta.

Ripercorrendo le storie di questi scrittori e riconducendole all’interesse di Pasolini per la poesia dialettale, che andava ben oltre l’ambito filologico, Benussi racconta il percorso travagliato compiuto da una città per definire la sua identità culturale, un percorso innescato da Scipio Slataper che per primo rileva l’urgenza di alimentare una vita dello spirito, libera dai valori meramente mercantili della borghesia triestina, dalle retoriche patriottiche carducciane e da ogni estetismo di ascendenza dannunziana: si tratta di ‘uccidere i padri’ e prendere le distanze dalla generazione precedente, come fa anche Stuparich quando indica nella poesia crepuscolare e futurista e in Nietzsche, Dostoevskij e Rimbaud i suoi punti di riferimento culturali; un nuovo ‘io’ nasce attraverso l’esperienza della Voce, la cui diffusione è proibita nella Trieste asburgica.

Quando Stuparich fonda il CCA, ad animarlo è ancora quella tensione alla “positività” e a un “fare” dal forte afflato etico che i vociani condividevano e che spingeva lo scrittore triestino a scrivere, nel 1913, che «Il maggior male del nostro momento storico è la mancanza d’una stella fissa, che ci orienti nel complesso cercare e multiforme vivere, il quale per noi, per la più parte di noi, resta senza riferimento. Tutto abbiamo messo in corso, afferrati i lembi più lontani e ripiegabili nel centro sinché tutto fosse in sé e niente fuori; non ci fermiamo mai, senza riposo, perché identificavamo il fermarci con la morte, e del fluire continuo che è la vita, diventiamo padroni solo fluendo anche noi». Sono pensieri di nuovo attuali nel 1946 e, come nel 1913, si avvertono l’inadeguatezza di una filosofia astratta e la necessità di un progetto che non si limiti alla critica del presente e del proprio ruolo perduto, ma che si esprima in azioni concrete e convogli gli impulsi sparsi del mondo culturale, con la stessa esigenza, formulata sempre da Stuparich in una lettera a Slataper del gennaio 1915, di “distriestinizzarsi” e “vivere fuori dell’incubo dell’ambiente che s’è formato nella nostra città”, di eliminare Trieste come “problema doloroso”, non dimenticandola, ma aprendo i suoi orizzonti.

In un contesto come quello dell’estate del 1946, quando è diffusa la paura di un’altra occupazione slava e a Trieste si riverberano ancora le tensioni internazionali, anche se Stuparich vuole evitare strumentalizzazioni, è inevitabile che il mondo della cultura si confronti con la politica e, come nel 1913, non è facile trovare una posizione equilibrata tra la difesa dell’italianità e un orizzonte culturale più ampio: per questo Stuparich vorrebbe che fosse Croce a inaugurare il Circolo, scrivendogli che «nei giorni forse più drammatici della sua storia, in un ambiente confuso e arroventato dalle passioni, in un’atmosfera di quasi generale disorientamento, Trieste tenta di risollevarsi spiritualmente, di raccogliere quelle energie che le restano nel campo della cultura e delle arti, per sentirsi degna del suo passato e per poter guardare con speranza all’avvenire».

Nella prospettiva di una rinascita nazionale e, insieme, universale, Stuparich auspica che il Circolo si collochi in un sistema culturale che «pur richiamandosi alle tradizioni della città e a quello che in passato ha conquistato, per lo spirito, per la cultura, aprirà la sua attività a tutto quanto in ogni campo e in ogni tendenza sia generoso e geniale anche nel pensiero d’avanguardia, invitando in quest’atmosfera ad una intesa comune mentre gli animi sono ancora dispersi e divisi nella conquista della libertà».

In una città con tante anime, l’italianità deve essere un fattore di coesione e di apertura e valorizzazione delle altre culture; la vitalità di Trieste si esprime sole se la città non rinuncia a nessuna delle sue diverse anime, superando le distinzioni di lingue ed etnie.

Anche Marin, direttore della sezione Lettere del CCA dal 1948 al 1964, è animato, come Stuparich e, prima ancora, Slataper, dalla tensione a cercare l’unità nella molteplicità e a rilanciare i valori dell’esperienza vociana.

Marin e Pasolini si incontrano sul terreno della poesia dialettale. Sarà grazie a un articolo di Pasolini del 1951 e all’Antologia della poesia dialettale del Novecento, curata con Mario dell’Arco nel 1952, che il poeta di Grado comincerà ad avere più spazio sulla scena nazionale: iniziano una corrispondenza epistolare e un’amicizia che va oltre la scrittura; Marin propone a Pasolini una conferenza sulla “funzione della poesia dialettale nell’Italia d’oggi” e gli chiede di aiutarlo nell’organizzazione degli incontri del Circolo. L’amicizia tra i due scrittori è fondamentale per aprire la sezione Lettere del CCA al contesto culturale nazionale e ai suoi dibattiti, proprio nel periodo in cui Trieste torna in Italia e il dibattito sul rapporto tra monolinguismo e bilinguismo si carica inevitabilmente di sfumature politiche.

Dalla corrispondenza che precede la conferenza di Pasolini del 22 ottobre 1954 (che per Marin «non è stata felice», anche se «ricca di spunti») si può intravedere anche il tenace lavoro dello scrittore di Casarsa per posizionarsi sulla scena culturale e costruire una rete di relazioni, che lo avrebbe portato a essere, negli anni successivi, un punto di riferimento imprescindibile.

Oltre a seguire la produzione in dialetto di Marin, Pasolini si interessa a quella di Giotti, a cui il Circolo dedica, nel 1958, il libretto collettivo Celebrazione di Virgilio Giotti: l’autore del Piccolo canzoniere in dialetto triestino, per la sua esigenza di restituire alla letteratura una funzione etica e per la scelta di scrivere in un dialetto anomalo che lo colloca in una condizione di eccentricità anche rispetto alla stessa scelta dialettale, è vicino per molti aspetti a Marin e Pasolini, che conoscono bene la forza, prelogica ed empatica, del dialetto.

Come rileva Benussi, ciò che accomuna Giotti e Marin è un’etica della povertà vissuta in senso ‘aristocratico’, come fonte di essenzialità, chiarezza e autenticità, che porta a non desiderare altro che il necessario, in contrapposizione con la logica puramente economicista e materialistica del benessere. In sintonia con riflessioni di Lukács, Benjamin, Barth e Heidegger, Giotti si concentra sull’esistenza umana nella sua concretezza, sciolta da ogni rigido e astratto sistema di pensiero, e, su questo terreno, ha molto in comune con Saba e con il suo “amore empatico”, quasi materno, nei confronti di tutte le creature, soprattutto le più vulnerabili.

Pasolini è il trait d’union tra Marin, Giotti, Saba, un mediatore che si muove disinvoltamente tra una prospettiva più locale, geografica, e uno sguardo universale, metastorico. A collegare questi autori è poi la ridefinizione del rapporto tra identità marginali e canone monolinguistico, che anche per Pasolini è fondamentale, sempre nell’ottica del realismo.

Pasolini codifica una tradizione poetica giuliana autoctona che non era stata ancora definita: Giotti, italianizzando la parlata dialettale triestina, crea una nuova tradizione e Pasolini lo inserisce ai livelli più alti della poesia italiana, rivelandosi anche in questo caso un mediatore senza pregiudizi e stimolando una profonda riflessione sulla necessità di rivedere il canone letterario, partendo dai margini.

Gli anni in cui il Circolo comincia ad assumere una fisionomia, oltre a coincidere con la ricerca di una identità per Trieste, sono anche quelli in cui Pasolini si afferma come personaggio pubblico e diventa sempre più protagonista non solo dei dibattiti letterari, ma anche di quelli sociali e politici, con un punto di vista spesso scomodo e spregiudicato, ostile nei confronti di ogni conformismo e consapevole delle sue contraddizioni e delle conseguenze che le sue provocazioni determinano: come sottolinea Benussi, era «Una rockstar d’altri tempi, che poteva permettersi attacchi d’ogni genere, un influencer, che col passare degli anni avrebbe accresciuto il suo potere, fino a restarne schiacciato».

Pur evidenziando le ambiguità di Pasolini e le sue compromissioni con il sistema che criticava, Marin ne ammira la forza e la determinazione; il loro rapporto continua e L’estedela de San Martin esce grazie all’interessamento di Pasolini.

Il 5 febbraio 1957 Pasolini torna a Trieste per presentare al Circolo L’isola di Arturo di Elsa Morante che era allora sposata con Alberto Moravia, e difende la scrittrice dagli attacchi della critica di sinistra, che la considera troppo intimista.

Sempre attraverso Pasolini Marin spera di rivolgersi a Carlo Emilio Gadda per commemorare Saba, morto, come Giotti, nel 1957, e propone all’amico di tenere una conferenza sullo scrittore, ma Pasolini è sempre più distante e sembra non voler mantenere le promesse: non riuscirà a essere presente neppure alle tre serate che il Circolo dedica a Marin nel 1959, condotte da Manlio Cecovini, Oliviero Honorè Bianchi, Giuseppe Mazzariol e Carlo Bo. Un riavvicinamento, anche se sofferto, avviene con la pubblicazione di Solitàe, con la prefazione di Pasolini che traccia il profilo tenero di un «settantenne di dieci anni», incapace di imparare dalla vita e ostinatamente immerso negli elementi naturali del paesaggio gradese, filtrato da una intensa sensualità.

Solitàe, vincitore del Premio Cittadella, mette in contatto Marin con Vanni Scheiwiller, che diventerà un amico fedele e sarà l’artefice del Premio Bagutta del 1965 per Il non tempo del mare: pur non avendo quindi più tempo da dedicare a Marin, anche perché ha cominciato a dedicarsi al cinema, Pasolini continua a svolgere una funzione di mediatore culturale e facilitatore; Marin vede però sempre il bicchiere mezzo vuoto, incerto sul proprio valore poetico e smanioso di vincere premi come il Viareggio e il Feltrinelli, che invece vanno a Diego Valeri e Carlo Betocchi.

Con la morte di Stuparich e la pubblicazione dei Ricordi istriani (1961) finisce un’epoca, e anche grazie alle attività promosse dal Circolo il mondo culturale triestino diventa sempre più consapevole della propria specificità: in questo senso, una tappa significativa è la pubblicazione dell’antologia di Poeti e narratori triestini, a cura di Bruno Maier, con il saggio introduttivo Invito alla letteratura triestina del Novecento.

Come sottolinea Benussi, la morte di Stuparich è anche l’occasione per un confronto tra due situazioni diverse in cui si trova Trieste: dal vuoto culturale lamentato da Slataper a inizio secolo, che poteva essere colmato perché la vitalità economica della città lo consentiva, si passa a un vuoto diverso, che «non nasceva dalla mancanza di una rappresentazione di una vita che comunque animava un porto pulsante, ma si riferiva alla carenza di un progetto economico e sociale che potesse rilanciare l’economia cittadina. Restava un nobile, ma non certo esaltante, compromesso ripiegarsi su sé stessi. L’italianità tanto invocata, nel cui nome era stato fondato il Circolo della Cultura e delle Arti, non era più un sogno da realizzare, ma una realtà deludente, con cui dover fare i conti».

Da questo vuoto nasceva la rilettura mitteleuropea dell’identità culturale di Trieste di Claudio Magris e quelle di Cergoly, di Carpinteri e Faraguna: la Mitteleuropa è un mito funzionale anche nell’ottica di una ideale resistenza anticomunista e comprende il dramma dei senza patria, rispetto al quale si ridefinisce lo spazio simbolico della città, come dimostra il caso di Fulvio Tomizza.

Marin e Pasolini si rivedono nell’estate del 1969 a Grado, dove il regista è venuto con Maria Callas per girare alcune scene del film Medea: oltre a presentare Porcile, Pasolini parla della poesia di Marin al Cinema Cristallo il 7 settembre. Sono passati dieci anni dalle conferenze di Pasolini al CCA di Trieste e, nel frattempo, il mondo letterario è completamente cambiato: si è assottigliata la libertà dello scrittore e del critico letterario, sempre più condizionati dal mercato e da logiche aziendali più che intellettuali. Il “cerchio magico” che Pasolini, Saba, Giotti e Marin avevano idealmente formato attraverso i loro rapporti e le loro vicende personali è un lontano ricordo: aveva la caratteristica unica di una fratellanza nella diversità, di cui il libro di Cristina Benussi documenta le diverse sfaccettature, lasciandoci la nostalgia per una stagione culturale forse irripetibile.

 

Cristina Benussi

I triestini il sabato non vanno a conferenze

Pasolini e la poesia triestina:

Giotti, Saba, Marin

EUT, Trieste 2022

  1. 172, euro 16,00