LUNATICO – La libertà si trova ai margini

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Incontro con Maurizio Soldà

di Adriana Medeot

 

Posto delle fragole, parco di San Giovanni. Seduta a un tavolino all’aperto, godo compiaciuta dell’atmosfera rilassata che mi circonda: gruppetti di giovani colorati che chiacchierano, musica di sottofondo. Sparse su una collinetta poltroncine blu, gialle, rosse e tavolini. Tintinnio di bicchieri. A poca distanza da me si sta approntando il banco per la mescita dei cocktail; a partire dalle sette di sera il luogo si anima, s’inizia con aperitivo e dj, poi gli appuntamenti delle ventuno con teatro, musica, incontri con artisti e narrazioni. Sono trascorsi quasi quarant’anni dal 3°Réseau internazionale di alternativa alla psichiatria (1977) e da allora “l’ospedale dei matti” è diventato un luogo bello e magico, dove rifugiarsi per riflettere passeggiando nello splendido giardino di rose, dove incontrare gli amici al bar-ristorante, dove costruire progetti e lavorare serenamente.Ecco Maurizio Soldà, puntuale, s’intrattiene brevemente con alcuni conoscenti, s’avvicina e mi saluta con un sorriso.

Demoghéla è lo spettacolo con cui hai partecipato a questa terza edizione del Lunatico festival: un monologo, scritto e interpretato da te, che ha tenuto incollato il pubblico per più di un’ora. Narra di uno sloveno di Trieste che si trova a combattere nel 97° reggimento dell’esercito austro-ungarico durante la Grande Guerra. Com’è nato il testo?

C’è un mio ex compagno di scuola, Roberto Todéro, che ha una grande passione per le vicende della prima guerra mondiale. Anche grazie a lui è nato questo spettacolo, che s’inserisce nel calendario di eventi programmati dagli enti locali in occasione del centenario della prima guerra mondiale.

Todéro ha scritto alcuni libri, attingendo a fonti storiche e materiali provenienti sia da archivi di stato e militari che da lettere e pagine di diario dei soldati. In Dalla Galizia all’Isonzo storia e storie dei soldati triestini nella Grande Guerra e nei Fanti del Litorale austriaco sul fronte orientale 1914-1918 la Storia, quella degli eventi epocali, quella decisa a tavolino dai potenti costituisce lo sfondo per le vicende quotidiane delle persone umili, che ne vengono travolte. All’interno di questo scenario ho inserito elementi fittizi ma verosimili. Ad esempio, il protagonista è un personaggio d’invenzione, si chiama Frane Zulianič di Ziaki. Per tratteggiarlo ho rovistato nella mia memoria personale: avevo un compagno di scuola che abitava a Ziaki, un piccolo agglomerato di case tra Barcola e Contovello. Rammento suo nonno, un vecchio socialista e i suoi ricordi di guerra. È stato d’ispirazione per creare Frane.

Mi sembra di cogliere un tuo particolare interesse per le relazioni tra macrostoria e microstoria. È così?

Sì, è un mio pallino, raccontare la storia dal punto di vista del popolo. Frane Zulianič è un uomo semplice, che conduce una vita normale, ma il suo piccolo mondo verrà inghiottito, squassato dagli eventi internazionali.

Il destino di Frane era già segnato: “Scole poche”, a quattordici anni “bubez” in Fabbrica Macchine, mentre suo padre lavorava in cantiere e sua madre “lavava strazze per i siori”. Per descrivere la vita degli operai della fabbrica macchine, ho – ancora una volta – usato i miei ricordi: negli anni Cinquanta, ragazzino, abitavo nei pressi di Passeggio Sant’Andrea e a mezzogiorno sentivo la sirena della pausa pranzo e vedevo decine di tute blu che consumavano il loro pasto portato dalle donne nelle gamelle.

Il protagonista si sposa con la figlia “de un talian” e nei primi mesi del ’14 viene chiamato alla leva. Pensa che la questione si risolverà brevemente, com’era accaduto a suo cugino che era rimasto in caserma per qualche mese; s’immagina già in settembre a vendemmiare nel suo piccolo podere, perché così accadeva nell’esercito austroungarico in quel periodo, non c’erano denari sufficienti per un addestramento militare più duraturo. Invece, la Storia si mette di mezzo e accade qualcosa che muterà per sempre il corso della sua vita: l’attentato a Sarajevo. Frane si ritrova così in Galizia e, sopravvissuto alla battaglia di Leopoli, verrà mandato nei Carpazi. Le condizioni in cui versavano i soldati erano tremende: freddo, tanto freddo, equipaggiamento e divise inadeguate, cibo scarso, ordini cui obbedire senza sapere il perché. Non erano considerati persone, ma carne da cannone. A Natale Frane si arrenderà ai russi che lo faranno prigioniero. Rientrerà a Trieste molti anni dopo la fine della guerra.

Una storia che per molti è stata drammaticamente vera.

Questa è l’intelaiatura della vicenda. Per fare teatro davvero però non basta narrare, bisogna colpire il pubblico con un’immagine forte, simbolica. E allora ho scelto di iniziare mettendo in scena Frane già morto, che ripercorre la propria storia a ritroso. Eccolo, nel 1955, seduto in poltrona, di ritorno dalle celebrazioni del 40° anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia, che, dopo la parata, si domanda: “Ma perché i ne ga dimenticado? Neanche gavessimo la peste”. Un meccanismo drammaturgico simile a quello che usò Claudio Magris ne La mostra, quando Vito Timmel inizia a raccontare se stesso nel giorno del suo funerale. Un coup de théâtre che vede lo spettatore complice di un artificio e lo rende partecipe, emozionato.

Demoghela è stato rappresentato più volte. Lo hai portato anche lontano da Trieste?

Lo spettacolo, che ha debuttato nel 2015, pur trattandosi di un monologo in dialetto triestino, ha ottenuto forti consensi anche altrove. A Lubiana, grazie alla supervisione di Boris Kobal e alla traduzione simultanea in scena per mezzo di sottotitoli, la pièce ha toccato il cuore del pubblico sloveno, che ha percepito il destino comune dei due popoli nelle vicende del primo Novecento.

Quando ti è stato chiaro che volevi fare l’attore?

Lo sapevo da sempre. È stato un bisogno. Nel ’72, ad esempio, mi trovavo a Roma per il servizio militare e la sera, vestito da marinaretto, preferivo andare a teatro, diversamente dai miei compagni in libera uscita, a caccia di ragazze. Frequentavo i cinema d’essai, al tempo scantinati che puzzavano di muffa, in cui mi godevo Buňuel o Jodorowsky. Non era normale per un soldato di leva, infatti venivo guardato in modo strano, ma per me era una necessità primaria, un modo per soddisfare la mia sete di conoscenza.

Bisogno per passione o bisogno personale?

Personale. Io non resisto a far chiacchiere inutili nei bar. Non posso star ore a parlare di calcio. Dopo venti minuti non resisto. Non resisto. Non perché chi lo fa sbagli, ci mancherebbe! Semplicemente mi stufo.

Però sei stato anche uno sportivo, hai giocato a rugby. Secondo te, c’è un legame tra teatro e disciplina sportiva?

Il rugby è uno sport che allena alla lealtà e nella vita reale la lealtà non vale nulla. Non serve a niente.

Che non serva forse è vero, ma è indubbiamente un valore. C’è forse un filo di amarezza, di delusione in queste tue parole?

No, è un dato di realtà. Oggettivamente è così, oggi bisogna saper vivere, bisogna abbozzare.

Posso condividere, ma spesso il tuo lavoro teatrale è indirizzato a dar voce a personaggi umili, ai perdenti. Senti forse la necessità di sanare un’ingiustizia?

Nessuna ingiustizia; personalmente ho razionalizzato tutto: vivo e lavoro in uno spazio marginale del mondo dello spettacolo, solo così posso fare questo mestiere senza vendere me stesso.

È un po’ il contrario di quello che sosteneva Andreotti: “Il potere logora chi non ce l’ha”.

Il potere deforma. Non è per me. Non sarei capace di assumermi un ruolo di direttore di teatro o cose simili: per che cosa? per il denaro? per farne cosa? non sono più giovane, con il denaro cosa potrei ottenere? bei vestiti, molte amanti? Non m’interessa. Non è che chi lo fa ha torto. Per qualcuno può esser giusto e soddisfacente, ma non per me. Preferisco la mia vita semplice e ne sono appagato. Credo che il benessere personale si conquisti in modo diverso: io amo leggere, discutere con persone intelligenti; per il resto faccio ciò che posso per mangiare, pagare i conti e vivere grazie al mestiere che mi piace.

Progetti per il futuro?

Ora sto lavorando con Pino Roveredo sul tema delle “profuganze”. M’interessa capire cosa accade nell’animo umano quando si è costretti ad abbandonare il proprio “campo di patate”, reale o metaforico. Dev’essere un dolore immenso, enorme. È quanto m’interessa approfondire ora, la situazione umana del profugo e il problema dell’identità.

Quali sono stati gli attori o i registi di riferimento negli anni della tua formazione?

Ho avuto la fortuna incredibile di vivere la giovinezza negli anni Settanta. In campo teatrale c’erano innumerevoli occasioni stimolanti. Feci otto mesi di stage con Grotowski a Venezia, dove ho acquisito le tecniche per valorizzare il lavoro dell’attore, attraverso l‘esperienza personale e umana, e questo è ciò che so fare: non è nelle mie corde il teatro di regia, di luci, di scenografia. Non ne sono capace. So solo agire su me stesso.

Poi sono tornato a Trieste e grazie a Basaglia ho lavorato con Scabia proprio qui, nel teatrino del comprensorio di San Giovanni. Con Misculin, insieme al Living Theatre, è stato messo in scena un Prometeo. Fu un periodo memorabile. In seguito Renato Sarti mi chiese di fare il macchinista per il Teatro dell’Elfo e accettai. Un anno dopo recitavo in Hellzapoppin’ per la regia di Gabriele Salvatores.

Poi ci fu Milano e lo Zelig, dove molti comici sono nati: Gioele Dix, Claudio Bisio, Gino e Michele. Era la generazione di cabarettisti successiva a quella del Derby, che lanciò invece Diego Abatantuomo, Enzo Iannacci, Cochi e Renato.

Cosa desidereresti fare ancora?

Desidero fare ciò che sto facendo. Forse mi piacerebbe ancora realizzare uno spettacolo per raccontare la Milano degli anni Ottanta, quando giravano molti soldi nell’ambiente dello spettacolo e tanti, ma proprio tanti ci si sono buttati a capofitto: raccontare chi c’era e non c’è più, chi ha scelto scorciatoie, chi s’è infrattato, raccontare di quel sottobosco di “nani e ballerine” che gravitava intorno a quelli che contavano.

La Milano da bere.

“Vien che te conto. Studa el registrator.”

Per l’intervista, basta così…