Per una bambina in orbita

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A proposito di una poesia di Valerio Magrelli

di Luisa Crismani

 

Pare che la poesia non interessi più, che gli editori fatichino a piazzare i libri di poesia, nemmeno regalandoli… I poeti, oggi, dicono, si leggono (e non è nemmeno certo) solo tra di loro, non raggiungono cioè un pubblico normale.

Certamente la poesia è difficile. Più della musica, perché si serve di un linguaggio che non tutti possiedono. Più della matematica, per lo stesso motivo. Né musica né matematica hanno bisogno di traduzioni…

Quanti scrivono versi? Magari anche noi ci proviamo, a volte. Meno sono coloro che pubblicano, per la summenzionata ritrosia degli editori.

Esageriamo noi, quaggiù? Abbandonati sulle montagne del nostro cuore? Noi che poeti, a dispetto di tutti, ancora incontriamo?

Quante poesie sono contenute ne Le Cavie di Magrelli? Contiamole. Non dall’Indice: una dopo l’altra. Rivedremo gli incipit, alcune parole qua e là ricorrenti. Sono 473, se abbiamo contato giusto. Le abbiamo lette tutte. Sappiamo bene che, come suggerisce l’autore, «Le poesie vanno sempre rilette, / lette, rilette, lette, messe in carica; / ogni lettura compie la ricarica» (La poesia, p. 368). E ci siamo appuntati alcune parole, in fondo al libro, perché noi i libri li adoperiamo…

Le parole un poeta non le usa a caso (nemmeno i segni d’interpunzione, le maiuscole, i corsivi, gli spazi, niente).

Ce ne sono alcune che tornano più volte, ci danno una traccia, sono come piccoli lumi, e ci servono per capire. Perché la poesia è difficile, arriva a dire quello che non si può dire in altro modo…

Una di queste parole, in Magrelli, è ”sonno”.

«Molto sottrae il sonno alla vita. / L’opera sospinta al margine del giorno / scivola lenta nel silenzio. / La mente sottratta a se stessa / si ricopre di palpebre» (p. 7). Siamo felici quando incontriamo un poeta che condivide con noi l’esperienza di un altrove letterario… “unter soviel Lidern” [“sotto tante palpebre”] volle Rilke fosse inciso sulla lapide della sua tomba a Raron, ci siamo andati, abbiamo visto.

Questa primo trasalimento (la poesia è la prima del libro) ci motiva quindi a porre attenzione alla parola “sonno”. Come parlerà, Magrelli, del “sonno”?

Vale, si capisce, per tutte le parole, come sempre in poesia… ma questa… perché proprio questa? Potremmo, noi, per nostra sensibilità, invertire quell’incipit: «Molto sottrae la vita al sonno». E continuare: «Sesso insonne / notti sonnolente d’attesa / notti di studio nebbie di sonno / veglie a morenti insonni…». Meglio lasciar perdere, non provarci nemmeno.

Il sonno di Magrelli è «oscurità dell’occhio” in cui «la mano diventa pupilla» (p. 30) e le parole annotate al buio: «Non ho un bicchiere d’acqua / sopra il letto: / ho questo quaderno». La mattina dopo «Restano pezzi sparsi, / povere ceramiche del sonno / che colmano la pagina. / è il cimitero del pensiero / che si raccoglie tra le mie mani» (p. 40).

Ancora: «Scrivere adesso, di notte, / è l’ultimo gesto prima d’immergermi / nell’alveo del sonno. […] Dopo, disteso nell’urna del lenzuolo, / raccolto come un penitente / scenderò nell’inferno del silenzio. » (p. 45). Possibile? Vorremmo chiedere al poeta, che il lenzuolo sia un’urna? E che il silenzio sia l’inferno?

Il paragone con la morte continua: «Questa carta è per me prima del sonno / l’incarnazione del corpo /[…] Come se ogni sera / lasciassi sopra il letto / una lapide quotidiana, / l’emblema per conoscere chi dorme» (p.48).

E c’è anche, per fortuna, un sonno tenero, ce lo descrive L’abbraccio. «Tu dormi accanto a me così io m’inchino / e accostato al tuo viso prendo sonno / come fa lo stoppino / da uno stoppino che gli passa il fuoco. / E i due lumini stanno / mentre la fiamma passa e il sonno fila. […] » (p. 248).

 

Possiamo forse, dopo questi pochi cenni, dire il perché di questa scelta della parola “sonno”.

In esergo a una silloge (Timore e tremore) Magrelli pone una frase di Bohumil Hrabal, grande scrittore, probabilmente suicida, che spesso rivela nelle sue opere un odio – disprezzo per se stesso, dipingendo l’immagine di sé come spregevole e crudele. Ecco queste sue parole: «Uno scrittore deve avere il coraggio di andare dove ha nuovamente paura».

Per scrivere la più bella delle sue poesie – ha dovuto scrivere tutte le altre per trovarla – Magrelli questo coraggio se l’è dato.

Leggiamola, ma non potremo mai farlo prima di dormire, perché ti colma l’anima  di uno sgomento senza fine. Si trova a p. 416.

 

Per una bambina di sei anni che non riesce a dormire

 

«Ti penso come una Laika in orbita nel cielo disabitato, / satellite ma cucciolo del buio, solo corpo celeste / a palpitare nell’universo devastato / dal sonno.

 

Hai occhi rimasti aperti nella notte, / accesi da pensieri che non sono te / e ti tengono desta / vorticando.

 

Soletta nell’ellittica, / pelouche astrale, / chiedi / come si fa a sparire.

 

Ma tu rimani, e superi la notte vegliando su di me / perplessa, ignara, arresa a una forza più grande / che sei tu, al faro che da dentro ti illumina, me cieco, / per guidarmi nel sonno».

 

Come si fa a “commentare” una poesia? Ce l’hanno insegnato a scuola. Spesso era solo una parafrasi. Adesso, da vecchi, ammutoliamo.

La cagnolina Laika mandata nello spazio è del 3 novembre 1957. Magrelli aveva dieci mesi, io nove anni e me ne ricordo benissimo.

Non mi erano stati dati, allora, saggiamente, i particolari. Adesso li trovi in internet. Atrocità senza nome. Cose così ti fanno sperare che il coronavirus faccia  finalmente giustizia. L’uomo è il peggiore tra gli animali.

Che il poeta guardi la sua bambina che non riesce a prender sonno, quel sonno che tante volte in lui è immagine di morte, e pensi a Laika: questa è la prima emozione.

Il cielo disabitato, il cucciolo solo corpo celeste a palpitare nell’universo (poi due accordi in minore, dissonanti: “devastato / dal sonno”). E quegli occhi rimasti aperti nella notte, con pensieri strani, che tengono svegli e vorticano.

Per Laika così è stato? Hanno pensieri, i cani? chiedono nell’estrema paura e sofferenza come si fa a sparire? A non soffrire più? A non aver più paura?

Nell’ultima strofa è la bambina in primissimo piano, lei sola stavolta, non più Laika, ignara di avere una luce dentro, che fora il buio, faro per il padre che nel sonno si sente, come già in altre poesie, cieco.

 

Non bisognerebbe commentare le poesie. Mai. Solo a scuola, per guidare nella lettura. Ma chi lo fa più.

 

L’universo di Magrelli è devastato. Recalcitriamo, noi, indietreggiamo come cavalli davanti a un baratro. Non riusciamo a trovare il coraggio di andare dove si ha paura.

Epperò… c’è qualcosa in lui che ce lo fa sentire congiunto, familiare, affine: quella luce che si sprigiona da una piccola bambina, dal suo centro, e che è guida, consolazione per il padre. Della paternità ha parlato anche altrove, mai benevolo con se stesso, per esempio ne Il traditore (p.490) che ha gettato «su questi incolpevoli il peso / che da solo non riuscivo a portare […] ».

Sono proprio i figli, e l’amore per loro, che rende il suo mondo poetico meno aspro, meno verticale (altra parola ricorrente) e non solo i figli. Valerio Magrelli è professore all’università, uno quindi che si spende per gli altri, per quei giovani (ne parla, spesso, dei giovani) che sono lì, davanti a lui, e ai quali trasmette informazioni, certo, ma soprattutto una dimensione interiore, un esercizio necessario di disciplina, di attenzione, di studio, di passione… nel mondo attuale, svagato e superficiale, non è poca cosa. E rende la sua terra molto molto meno desolata.

 

 

Valerio Magrelli

Le cavie. Poesie 1980-2018

Einaudi, Torino 2018

  1. 644, euro 17,00