Domon Ken, immagini dal Giappone

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Le sue fotografie tra attualità e cultura classica del suo Paese

di Michele De Luca

 

 

“Sono immerso nella realtà sociale di oggi ma allo stesso tempo vivo le tradizioni e la cultura classica di Nara e Kyoto; il duplice coinvolgimento ha come denominatore comune la ricerca del punto in cui le due realtà sono legate ai destini della gente, la rabbia, la tristezza, la gioia del popolo giapponese”. Sono parole di uno dei protagonisti assoluti della fotografia del Giappone, Domon Ken (Sakata 1909Tokyo 1990), in cui l’uomo del suo tempo e della sua terra assume un ruolo centrale nella sua attenzione e nella sua ricerca, scrutato con il suo obiettivo nella sua attualità e nella sua identità culturale, nella sua vicenda sempre in bilico tra “cronaca” e “storia”.

Nel 1933 riuscì ad entrare nello studio fotografico di Kotaro Miyauchi e due anni dopo passò a lavorare per la rivista Nippon, per poi trasferirsi, nel 1939, alla Kokusai Bunka Shinkokai, un’organizzazione nazionale di propaganda, decidendo di collaborare in appoggio allo sforzo bellico del suo paese nella seconda guerra mondiale. Grazie all’esperienza acquisita sul campo, alla fine della guerra divenne un fotografo indipendente e documentò le condizioni del dopoguerra giapponese concentrandosi sulla società e sulla vita quotidiana delle persone comuni. Le sue foto più conosciute, infatti, sono quelle che riguardano i sopravvissuti al bombardamento atomico di Hiroshima o quelle che documentano la vita dei bambini nella comunità di minatori di Chikuhō Kyūshū. I reportage su Hiroshima sono probabilmente il punto più alto e sicuramente il più drammatico della sua opera. Domon Ken arriva nella martoriata città nel 1957 e racconta con la sua macchina a telemetro le devastanti conseguenze delle radiazioni, ancora dodici anni dopo la bomba: le distruzioni, i tumori, la chirurgia plastica. Foto che scuoteranno il Giappone, mostrando il dolore e la sofferenza di una tragedia che il Paese cercava di dimenticare e nascondere come una colpa vergognosa. Perché a dispetto del soprannome affibbiatogli dai suoi collaboratori e discepoli – “il diavolo” – per il suo carattere burbero e spigoloso, Domon Ken rivela nelle foto di Hiroshima come nelle serie sui figli dei minatori di Koto e Chikuho, poveri o orfani , una grande umanità e compassione.

In questo periodo diventò famoso come un esponente del realismo in fotografia, che richiedeva – come lui stesso affermava – “uno scatto assoluto che sia assolutamente non drammatico”. Una “poetica” e una pratica dell’obiettivo che ha ispirato l’intero e lungo percorso del suo lavoro, come documenta l’importante mostra allestita fino al 18 settembre all’Ara Pacis di Roma, organizzata da MondoMostre Skira (cui si deve anche il catalogo) con Zètema, e curata dalla professoressa Rossella Menegazzo: circa 150 fotografie, in bianco e nero e a colori, da lui realizzate nel corso di oltre mezzo secolo, sostenendo che “la dote fondamentale di un’opera di qualità sta nella connessione diretta tra la macchina fotografica e il soggetto” per raggiungere il risultato di un’immagine “realistica”, che pur raccontando fasi storiche difficili e dolorose, evitasse di scivolare nella “drammaticità”, cioè in rappresentazioni espressive di stati tormentosi e problematici, enfatizzati e “teatrali”. Come ha ricordato un suo allievo, Takeshi Fujimori: “scattare foto era il mezzo con cui Domon Ken esprimeva se stesso: fotografare significava vivere … Domon è il maestro che ci ha insegnato con quale spirito deve vivere chi sceglie la professione della fotografia”. Che sottintendeva un forte e solida base culturale su cui poggiare il suo approccio con i suoi soggetti, che si trattasse di varia umanità nipponica oppure di statue buddiste. Un’intera sezione della mostra è proprio dedicata al “Pellegrinaggio ai templi antichi”, immagini, assolutamente prive di ogni retorica, di sculture e architetture buddhiste, tesori e scorci di paesaggi, scattate nei suoi viaggi per documentare la bellezza dei luoghi sacri dell’antichità, testimonianze della diversità culturale del vecchio Giappone. Realizzando queste foto, non era mosso però da interesse scientifico, storico oppure artistico, ma si lasciava guidare soltanto dalle emozioni che le testimonianze di un lontano passato gli suscitavano al momento.

Nel 1958 ricevette il Premio Mainichi di fotografia e il premio Fotografo dell’Anno” dall’Associazione dei critici fotografici del Giappone.” Fu inoltre premiato dal Ministero dell’educazione giapponese nel 1959 e dall’associazione nazionale giornalisti nel 1960. Nel 1960 e poi ancora nel 1968, Domon fu colpito da ictus, le cui conseguenze lo costrinsero sulla sedia a rotelle e gli resero impossibile impugnare normalmente la macchina fotografica. La malattia tuttavia non gli impedì di continuare nella sua opera di documentazione fotografica della cultura giapponese. Il fotografo viaggiò a lungo per tutto il paese fotografando i templi buddisti e producendo un’impressionante serie di bellissimi libri fotografici. Nel 1963, Domon cominciò a lavorare al progetto più importante della sua vita Koji junrei (1963-1975) che comprendeva foto dei templi e della cultura giapponese a Nara e Kyoto.

Nel 1976, il fotografo fu colpito da un terzo ictus che lo rese completamente invalido, impedendogli di fare foto. Nel 1981 fu istituito a suo nome il Premio Domon Ken di fotografia, due anni dopo gli fu dedicato un museo a Sakata.

 

Rumie, 1959