Dondero, una vita da reporter

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Una grande antologica al Museo Lechi di Montichiari (Brescia)

di Michele De Luca

 

Mario Dondero possedeva una forza espressiva che lo aiutava, ha scritto Claudio Magris, a “viaggiare sentendosi sempre, nello stesso momento, nell’ignoto e a casa, ma sapendo di non avere, di non possedere una casa. Chi viaggia è sempre un randagio, uno straniero, un ospite; dorme in stanze che dopo di lui albergano sconosciuti; non possiede il guanciale su cui posa il capo, né il tetto che lo ripara”.

Dondero (Milano 1928 – Petritoli, Fermo, 2015) è un “personaggio” della fotografia italiana, quella che si è affermata a partire dagli anni Cinquanta, gravitando a Milano, a Brera, intorno al Bar Giamaica, immortalato da Ugo Mulas in un “mitico” scatto. Ma nella sua modestia, egli sembra quasi non accorgersi della “storia” che ormai è sedimentata nelle sue inquadrature: col suo sguardo sempre lucido, la sua inesauribile curiosità, fino agli ultimi anni è sempre pronto a partire per una nuova avventura, come se fosse la prima. Come Corto Maltese. Con la stessa attenzione ai fatti, alla cronaca, agli eventi, il suo rispetto per le persone che incontra, per la loro dignità ed unicità, così riassunto da uno scrittore come Corrado Stajano: “Un fotografo che è sempre stato dalla parte delle persone riprese dal suo obiettivo, partecipe del loro destino, attento a cogliere uomini e donne in una luce di verità, senza violare i sentimenti più segreti e senza superare mai le gelose barriere private”.

Dondero ha girato il mondo, è stato nei punti critici delle guerre e nei posti drammatici della pace, trovandosi sempre puntuale agli appuntamenti più significativi e dandocene testimonianza in decenni e decenni di lavoro, grazie alla sua eccezionale capacità di cogliere i piccoli momenti, di fissare l’attimo di cui non resterà traccia se non attraverso i suoi scatti. In lui esistenza e vita lavorativa si sono fuse in una indissolubile simbiosi fatta di viaggio continuo e di avventura, come dimostrano le sue immagini esposte al Museo Lechi di Montichiari (Bs), in cui si esprime il suo concetto, tradotto in intensa pratica professionale, di fotografia, che come soleva dire, “è una deformazione dello spirito: continui a viaggiare e a immaginare in forma di fotografia. Per questo non ho preso mai la patente. Preferisco il treno, il pullman o la nave … Fare fotografie è anche un modo per dimostrare un affetto, per captare l’anima dei luoghi e delle persone”. In piena sintonia con John Steinbeck, il quale diceva: “Le persone non fanno viaggi, sono i viaggi che fanno persone”.

L’esposizione intreccia momenti e aspetti di questo suo lungo percorso di vita: l’appassionante ritratto costruito negli anni sul mondo della cultura europea del secondo Novecento, con la sua ricchezza di idee, il fermento di sperimentazioni e la tensione morale che lo attraversa, a Roma, a Milano, a Parigi, come a Londra; le immagini di importanti momenti storici come il maggio francese, la caduta del muro di Berlino, i conflitti del Medioriente, ma soprattutto il racconto della “storia minuta”, della vita quotidiana della gente comune. “I padri che tengono in braccio i figli, i pastori, i contadini con le loro zappa. La vita che scorre per tutti”, come scriveva Dondero. Ecco allora le fotografie dei villaggi del Mali, del Senegal, del Niger, dove Dondero torna ripetutamente soprattutto nel corso degli anni Settanta, delle famiglie contadine in Portogallo, Italia, Spagna, di Cuba, negli anni più duri dell’embargo, della vita nella Russia di Putin. Volti, ritratti di uomini e donne, frammenti di vite che ci guardano e ci parlano attraverso l’obiettivo del fotografo, coinvolgendoci nel dialogo appassionato che Dondero ha intessuto per tutta la sua vita con il mondo e la realtà.

“Mario Dondero. Un uomo, un racconto” – questo il titolo della mostra antologica – presenta con fotografie note e inedite realizzate in varie parti del mondo, ritratti di artisti e letterati, scatti di momenti storici e volti di gente comune, che hanno scandito il percorso di Dondero in mezzo secolo di viaggi e impegno civile e sociale. Famoso a livello internazionale per il suo straordinario lavoro, che nel corso di numerosi decenni, ci ha restituito immagini e racconti che hanno segnato la storia della nostra contemporaneità e che resterà per la sua forte valenza di testimonianza civile in quanto, come dice lo stesso Dondero, “la fotografia non è il fine, ma il mezzo per avvicinarsi alla vita”. “Instancabile agitatore di umanità”, come lo ha definito Stefano Tassinari, Dondero ha ritratto i più grandi protagonisti del cinema e del teatro italiani del novecento, e figure di rilevanza internazionale, da Beckett a Ionesco, da Sartre a Foucault, Althusser, Francis Bacon, Elsa Morante, Gadda, Sanguineti. Pasolini, Primo Levi, Robbe-Grillet, Jane Seberg, Laura Betti e tanti altri.

Di origini genovesi, nasce a Milano il 6 maggio 1928. Appena sedicenne è staffetta partigiana della brigata “Cesare Battisti”, in Val d’Ossola. Troppo pigro per assecondare il suo talento di scrittore e nonostante Enzo Biagi lo assuma giovanissimo a Milano sera, nell’immediato dopoguerra inizia la sua attività di fotografo. Dirà più tardi, “mi sono accorto che fare le foto mi divertiva di più, vivevo più intensamente la realtà e riuscivo a rispettarla …”.

Sulle orme di colui che considera un maestro insuperato, Robert Capa, e del grande documentarista Joris Ivens, di cui diverrà amico, la sua attenzione si rivolge immediatamente alla fotografia ‘engagée‘: guerre, conflitti sociali e politici, avvenimenti internazionali sono infatti catturati e in più di un caso immortalati dal suo obiettivo, basti pensare al celebre scatto che per primo ritrae il crollo del Muro di Berlino. Grande interesse peraltro ha sempre mantenuto, in Italia e all’estero, per il lavoro degli artisti e degli scrittori, di cui si è trovato ad essere un complice compagno di strada.

La mostra, curata dal direttore del museo Paolo Boifava, affiancato dal Ma.Co.f, Centro della fotografia Italiana di Brescia diretto da Renato Corsini, che si avvale anche della bergamasca Galleria Ciribelli, raccoglie sessanta foto che fanno ripercorrere le tappe del suo percorso professionale e della sua vicenda umana. Nel bel catalogo pubblicato da Silvana Editoriale si possono leggere testi di Walter Guadagnini e Tatiana Agliani Lucas.