Donna Minerva

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Diciotto racconti di Graziella Atzori tra autobiografia e trasfigurazione surreale

di Marina Silvestri

 

“Sono rinata donna Minerva, con alcune varianti però: ho eliminato l’elmo e deposto la spada, accantonato lo scudo, oramai e per sempre preferisco l’aratro. Scrivo la pace, come la dea posso diffondere la cultura dell’olivo, contemplo serenamente le mele d’oro”. Così scrive Graziella Atzori nel racconto breve che dà il titolo al suo ultimo libro Donna Minerva.Artista visiva, poetessa, una laurea in filosofia, Graziella Atzori attinge le immagini dalla mitologia e dagli archetipi, come dalla vita quotidiana per creare dei racconti che sono dei tableau volti a mettere in scena la sua visione del mondo e dalla vita che per lei è qualcosa di unitario e interconnesso, olistico.

Il primo dei testi, intitolato Il bacio mette in evidenza le capacità drammaturgiche dell’autrice con un finale inaspettato preparato con cura nei dettagli e nel crescendo. ”Che strano, non moriva più di paura. In lei era scesa una strana calma, mai conosciuta in precedenza. Il cuore era diventato di pietra, dopo la morte di sua madre sentiva di avere introiettato tutta la sua forza, la determinazione, l’autocontrollo, la lucidità”. Una scelta, questa di ‘spiazzare’ il lettore, che si ripete anche in altri brani. Ma, quello che colpisce nei temi proposti da Graziella Atzori è il risvolto esoterico, sempre presente, che è al contempo espediente narrativo e scheggia di cultura sapienziale offerta in modo da poter essere ricomposta da chi vi si riconosce per consonanza spirituale.

Atzori esprime il contrasti fra le culture e la necessità di perdono, di superamento dei conflitti, familiari, adolescenziali, amorosi, sociali, volontà che è sempre presente nel suo impegno pubblico di operatrice culturale. Così in Fumo a Venezia, storia di una “vecchia signora sorridente nonostante la trascorsa solitudine e gli acciacchi sempre attuali” che, per aiutare la luminosa giovane Sumbuko (ma Sumbuko significa dolore avverte l’autrice) “fresca di gioventù”, nata in Tanzania, alla ricerca di un avvenire migliore, esperimenterà su di sé i pregiudizi per il diverso, e battendosi per la dignità della “dolce nera”, affermerà la sua. Il libro gioca nel registro del fantastico, sfiora il gotico e l’assurdo, è romantico e surrealista, carnale e spirituale, pessimista e idealista; presenta storie di presenze e compresenze, di esseri reali che incontrano entità ‘smateriate’, forse manifestazione dell’inconscio, del sogno, o di una dimensione dell’esistenza dove sogni e realtà si mescolano e trovano punti di contatto. Nei racconti compaiono figure di amanti distratti ed egoisti, donne e uomini che l’amore scaraventa in patologie destabilizzanti e incontrollabili e ci sono poi angeli alieni e robot. Se la passione non risparmia nessuno, l’amicizia è cura per i turbamenti dell’anima, la sola apre nuovi orizzonti di fiducia nell’altro.

C’è Uriel, l’angelo della Luce. “Ha le gambe corte e lo sguardo magnetico […] riempie tutto lo spazio visibile e invisibile”. Uriel dirà al protagonista “un tossico che non sapeva che farsene delle ore”: “sono qui per te, per spargere un granello di conoscenza a tuo favore, per iniziarti e farti germogliare”. Il racconto si intitola Sotto il ponte (omaggio a Toulouse Lautrec) e la luce di cui l’angelo è portatore è l’arte, sono i colori, “il mio bastone” , dice Uriel, “ si trasformò in pennello”. Conforta il ragazzo e lo sprona ricordandogli che “l’arte giustifica dolore e morte, fa rifiorire la rosa, è partente dell’eternità. L’arte non è tossica, ti avvincerà possedendoti. È anche tua. Sarà la tua redenzione”. Nel racconto La strana malattia, il nome dell’angelo è Zafkiele. Zafkiele tende una mano a Rosa che senza l’amore non sa vivere, ma nell’amore ogni volta si perde: “Zafkiele testimone dell’amarcord, affondava la sua lama angelica nella consapevolezza del tessuto psichico…”, poi portato a termine il suo compito “svaniva in una nuvola di sorriso, inabissandosi lentamente dentro il suo petto”. Conclude l’autrice: “Ricordare per vivere, comprendere per superare, abbandonare l’impossibile: Rosa esperisce, sa finalmente accettare un limite, abbandonare il passato, sa circoscrivere per individuarsi e costruire un tracciato esistenziale, entro i margini di libertà che il Destino pone agli umani e agli dei”. Le creature angeliche che nel momento del bisogno si manifestano, sono sempre dentro ciascuno e ciascuno ‘nel segreto’ del proprio animo le può trovare, afferma Atzori, così come l’arcangelo della morte è una presenza ‘amica’ che ci cammina sempre a fianco e si “scioglie nella pioggia”, quando “il ponte di giada fra la terra e il cielo” viene superato. Immagini poetiche forti, che abbagliano, e non lasciano senza risposta.

Troppo umano è invece un piccolo robot, di nome Zero, protagonista del racconto L’automa, che l’emozione scaturita dall’assistere all’addio di una donna al suo compagno, muta per sempre. Non più soltanto macchina, diviene un essere volitivo e verrà buttato nella spazzatura quando il proprietario per il dolore dell’abbandono, muore d’infarto. “La sua energia” – conclude l’autrice – “passeggia o si muove in modo vorticoso nei sotterranei del laboratorio, pronta a riallacciarsi alle passioni del futuro. A riproporle con le variazioni del caso, a suggerire sillabe di salvezza”. Il linguaggio dell’autrice a volte si fa oscuro, a volte luminoso e profetico come nel brevissimo scritto intitolato Formato tessera, un omaggio alla madre, penultimo anello alla catena delle esistenze a cui ciascuno di noi appartiene. “Il culto degli antenati è sempre stato la prima forma di religiosità, e certamente la più autentica. Tu sei il mio culto, la mia religione antica, l’Eva; sei la pianta che ha dato frutti, sei l’origine e l’ultima meta. In te mi completo e mi sviluppo fino al congiungimento ideale, io stessa volto della madre e punto ontologico. Io sono te”.

Suggestioni bastanti a dare la misura dei contenuti e del modo con cui una materia così complessa viene affrontata. I titoli stessi ne sono parte significante, Il transito, Una barca sul fiume, L’albero di Giuda, L’assassinio invisibile, Gelato al limone: non sfigurerebbero in una mostra d’arte. Ma un brano si differenzia dagli altri per realismo e forza morale e forse è il più bello. Scuote e commuove e fa ripensare a certe pagine della nostra letteratura che hanno affrontato con pietas il dramma dei soldati figli dei territori più poveri e isolati del Paese, sradicati dal mondo arcaico e secolare in cui sono cresciuti per essere mandati in guerra, “vittime sacrificali”. “Di lui restò il nome sui giornali a lettere cubitali per un giorno. Restò il compianto rituale degli alti ranghi dello Stato, in televisione, e il dolore intenso di carabinieri conosciuti e sconosciuti. Restò il brusio tremante e commosso dei compaesani nella piazza del paese d’origine, dove tutti avevano conosciuto Tore, giovanissimo figlio di tutti. Più persistente e inconsolabile il singhiozzo rauco della nonna, poi nulla, più nulla. La cronaca si riempie inesorabilmente di altre storie. L’oblio umano è una forma di crudeltà”.

Lo scambio di mail con il poeta Claudio Grisancich riportato in appendice mette l’accento su altri aspetti ancora: Grisancich nomina l’umorismo di Kafka, i film di Wenders e Buñuel e l’imperturbabile sgomento dei personaggi dei quadri di Baltus…

La chiave interpretativa di questo libro è la stessa Atzori a fornirla, quando scrive: “Nulla si perde, nulla è cancellato. E dunque invoco: tornate giorni lontani, affinché possa redimervi con un ricordo pulito, depurato dal rancore, abbellito da perle di luce, senza giudizi o condanne. Tornate, personaggi della mia storia, in queste righe, pacificati dal perdono”. Da ultimo e non ultimo, il richiamo voluto in copertina all’universo femminile, “ di cui la società non può fare a meno senza che inaridisca il senso della vita”.

 

 

copertina:

 

Graziella Atzori

Donna Minerva

Nulla Die Editore, Piazza Armerina, 2019

  1. 150, euro 15.00