Dora Bassi tra immagini e parole

| | |

Bisogna cercare Dora Bassi anche per biblioteche e non solo per musei, poiché si può incontrarla in entrambi tali ambienti, uno soltanto dei quali non è sufficiente a contenerla per intero

di Walter Chiereghin

 

Alla Galleria Spazzapan di Gradisca d’Isonzo, per iniziativa dell’Erpac, è allestita fino al 27 novembre la mostra “Dora Bassi: immagini e parole”. L’esposizione, curata – come il pregevole catalogo che l’accompagna – da Cristina Feresin, propone dipinti, sculture (e citazioni) realizzati dall’artista nel suo lungo periodo di attività, durato oltre mezzo secolo, dagli esordi giovanili dei primi anni Cinquanta, fino a scavalcare la soglia del terzo millennio.

Nata a Feltre nel 1921, ma trasferitasi quasi subito con la famiglia a Brazzano di Cormons, paese d’origine del padre farmacista, mentre la madre era una «ragazza di città, triestina, libera nei modi» (dove non diversamente indicato, i virgolettati si riferiscono al volume di Dora Bassi e Gianfranco Ellero, Conversazioni sulle arti visive, Arti Grafiche Friulane, Fagagna 1989). Dopo le elementari, la famiglia si trasferì a Gorizia dove Dora proseguì gli studi presso il locale liceo classico e, conseguita la maturità, si iscrisse alla Scuola del nudo dell’Accademia di Belle Arti di Firenze, dove fu allieva di Felice Carena, e poi all’Accademia di Venezia. «Io, per dire la verità, mi sentivo portata a tutto, mi piaceva tutta la cultura […] sono partita dalla cultura, non dall’arte…» (p. 17). A Venezia comunque si diplomò nel 1943 e, dopo il matrimonio, si trasferì a Udine, dove avvenne per lei «il vero incontro con l’arte» (p. 19), anche in conseguenza dell’incontro con l’artista Fred Pittino. Nei primi anni Cinquanta, dopo un esordio collegato alle avanguardie europee e all’espressionismo, aderì al movimento neorealista essendo introdotta da Anzil (Giovanni Toffolo), in una cerchia che comprendeva anche  Giuseppe Zigaina, Ugo Canci Magnano, Sergio Altieri e altri artisti. Sollecitata in particolare da un’acuta sensibilità sociale che anche in seguito – tingendosi soprattutto di femminismo – l’avrebbe ispirata tanto in arte che nella vita, nel suo non troppo lungamente protratto periodo neorealista mantenne una sua autonomia ideologica ed espressiva, esercitandosi in immagini di figure poderose inscritte in impianti compositivi rigorosi e tuttavia inclini a dissolversi di lì a poco, in esito a una visita alla Biennale veneziana del 1960, quando si decise ad abbandonare «l’osservazione della natura per affrontare l’avventura informale» (p. 59). Fu in effetti una transizione fulminea, degna del personaggio: «Incontrare l’informale e sentirlo mio fu una questione di pochi minuti» (p. 86).

Già nella prima parte del suo percorso biografico traspare dunque nell’agire artistico di Dora Bassi un’inesauribile pulsione di ricerca, che troverà conferma negli anni che verranno, In particolare gli anni Sessanta sono stati per l’artista un periodo pregno di stimolanti suggestioni e di inappagate curiosità culturali ed esplorazioni in ambito artistico. Riprese gli studi universitari a Padova ed affrontò come ceramista un suo confronto con la tridimensionalità che la condurrà lontano, alla sua crescita come scultrice e didatta della materia all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove venne chiamata come assistente da Dino Basaldella nel 1971 e dove continuò il suo magistero fino al 1991. In tale ambito il suo lavoro prese forme progressivamente più complesse nelle dimensioni e nei materiali, dalle prime opere a tutto tondo in ceramica di piccolo formato a più grandi dimensioni e spaziando quindi su opere in bronzo, fusioni in acciaio e ad assemblaggi operati mediante tecniche di saldatura e fresatura senza mai trascurare la sua attività pittorica, integrandola anzi con superfici specchianti, creando con esse dei veri e propri innesti tra la bidimensionalità dei dipinti e l’aggiunta della dimensione di profondità ottenuta mediante l’accostamento o l’inclusione in strutture a specchio o a lamine d’acciaio specchianti, in un gioco di riflessioni che integra pittura con scultura. Durante i suoi anni milanesi espose per tre volte al Grand Palais di Parigi, confermando una dimensione europea della sua produzione. Prosegue intanto il suo impegno sociale, che la vede nelle file del femminismo: ritornata in Regione e stabilitasi a Gradisca regge dal 1984 al 1990 la presidenza dell’associazione DARS (acronimo per Donna Arte Ricerca e Sperimentazione) ed affianca un’intensa attività culturale a quella artistica ed espositiva, scrivendo saggi, articoli, autopresentazioni delle sue mostre e interventi critici, ma anche affrontando la narrativa, che darà luogo a due romanzi, il primo, L’amore quotidiano edito da Lint Editoriale nel 1998, l’altro, Una notte in fondo al cielo. Un artista in fuga, pubblicato postumo a cent’anni dalla nascita (Bratain, 2021).

Questo suo interesse per la parola, giustamente posto in risalto fin dall’intitolazione della mostra di Gradisca, trova riscontro nel suo partecipe interesse e nell’accuratezza delle sue scelte lessicali, fin dai titoli che identificano i suoi dipinti: «il titolo è coadiuvante, nella lettura del quadro. Lo era, almeno per me, ai tempi dell’informale. Ma la parola stessa può essere introdotta nel quadro! è questa un’operazione ancor più raffinata, che sto facendo adesso, anche in questi giorni [nel 1986 ndr]» (p. 86). Infatti almeno due delle opere esposte alla Spazzapan, La conversazione, (1989) e Il treno delle 4.22 (1992) testimoniano direttamente di questo connubio tra immagine e parola che connota di sé l’attività e la ricerca dell’artista, dagli anni ottanta alla conclusione della sua esperienza umana intervenuta a Udine a 86 anni, il 26 agosto 2007. Feresin, nel catalogo, si sofferma su questa duplicità di strumenti che Dora Bassi si è data, che costituisce poi anche il presupposto della mostra di cui stiamo parlando, quando osserva che l’artista «imposta diversamente il suo rapporto con la pittura, e la pittura, assieme alla scrittura, ora, le bastano. La sua unità si è ricomposta. Negli ultimi cicli (Altar, La leggenda d’oro, Infanzia a Brazzano) trova “i colori degli affetti” e dà voce, con leggerezza, a quell’imprecisione tutta umana, al mondo intimo».

Non era certo facile dare ragione con una mostra, di necessità selettiva e frammentaria, di una personalità così poliedrica e di una produzione così articolata e dilatata nel tempo, ma direi che l’operazione è perfettamente risuscita: sono rappresentate tutte le fasi cui sopra s’è accennato, con opere, sia dipinti che sculture, che sono prodotte in uno spazio temporale esteso da Casette in Ciavris, del 1951 al ciclo di undici oli del 2004 sulla leggenda di Sant’Orsola, che da sola meriterebbe un’altra recensione.

Ce n’è comunque abbastanza, nell’esposizione curata da Cristina Feresin, per farsi un’idea relativamente precisa del lavoro dell’artista e, per di più, per sollecitare ulteriori interessi e curiosità, com’è capitato a chi scrive, che è andato a cercare Dora Bassi anche per biblioteche e non solo per musei, avendo compreso che si può incontrarla in entrambi tali ambienti, uno soltanto dei quali non è sufficiente a contenerla per intero.

 

Contrappeso

acciaio, 1975

collezione privata