Voci d’un vecchio cantare

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Ancora una volta Milano è il palcoscenico variegato e convulso dove ha vissuto quasi tutta la sua esistenza Franco Loi

La vita stessa, la «calda vita», la sentiamo scorrere come un fiume nella fiammeggiante poesia autobiografica di Loi

di Anna De Simone

 

Nessuno sembrava essersi accorto del bambino di sette anni, sbarcato da Genova nella nebbia della Stazione Centrale di Milano, la città in cui la sua famiglia aveva deciso di trasferirsi. Era l’anno 1937. Chi avrebbe potuto immaginare che quel bambino di sette anni in lacrime sarebbe diventato l’erede legittimo di Delio Tessa, di cui tutti ricordiamo almeno i versi nei quali si richiama alla disfatta di Caporetto nel 1917 («L’è il dì di mort, alegher»: è il giorno dei morti, allegri). A distanza di mezzo secolo, Loi, quest’erede geniale di Tessa, canterà la liberazione di Milano, avvenuta il 25 aprile 1945: liberazione dalla guerra, dai nazifascisti, dalle bombe. La città sembra impazzita, tutti vogliono ballare; nascono balere nei cortili, al Castello sforzesco, dappertutto: bastano quattro lampadine, della carta colorata ed ecco nascere il Gardenia, il Miralago, la Stella Rossa, la Capannina. Loi racconterà tutto questo in dialetto e in versi che sembrano essersi formati da soli e che rispecchiano l’apertura d’ali di questo poeta.

Che dì, ragassi! In depertütt balera!

Baler in strada, baler den’ di curtìl…

L’è la mania del ballo! Milan che balla!

Gh’è ’n giögh de bocc, un prâ… Sü tri canìcc,

e, thràcheta, la sala bell’e prunta…

[…] Basta che pénden

chi quatter lampedìn de carta rösa…

Gardenia, Miralago, Stella Russa,

el Lido, Lago Park, la Capannina…

Fina nel Trotter… E ogne nòm ’na storia,

ché basta dì «l’era ’l Quarantacinq»

e pö «Quarantases», e a tanta gent

s’indrissa i urègg, ghe vègn i furmigun…

… Vegnivum da la guèra, e per la strada

gh’evum passâ insèma amur, dulur.

Amô sparaven, amô gh’eren i mort

ma serum nüm, serum class uperara,

nüm serum i scampâ da fam e bumb,

nüm gent de strada , gent fada de mort,

nüm serum ’me ssbuttî dai fòpp del mund,

e, nun per crüdeltâ, no per despresi,

mancansa de pietâ, roja de nüm,

ma, cume ’na passiun de sû sc’ciuppada,

anca la nott nüm la vurevum sû…

Ciamila libertâ, ciamila sbornia,

ciamila ’me vurì… Festa aj cujun!

… ma nüm, che l’em patida propri tüta,

anca la libertâ se sèm gudü!

Che giorno, ragazzi! Dappertutto balera! / Balere in strada, balere nei cortili… / È la mania del ballo! Milano che balla! […] Venivamo dalla guerra, e per la strada / avevamo passato insieme amori, dolori. /Ancora sparavano, ancora c’erano i morti, / ma eravamo noi, eravamo classe operaia, / noi eravamo gli scampati dalla fame e dalle bombe , noi, gente di strada, gente fatta di morte, / noi eravamo come germinati dalle fosse del mondo, / e non per crudeltà, non per disprezzo, mancanza di pietà, vomito di noi, / ma, come una passione di sole esplosa, anche la notte noi la volevamo sole… […] Chiamatela libertà, chiamatela sbornia, / chiamatela come volete… Festa ai coglioni! / … ma noi che l’abbiamo patita proprio tutta, / anche la libertà ci siamo goduti!Nel nuovo volume di Loi, Voci di un vecchio cantare, troviamo situazioni, sfondi e temi che ci sono familiari. Ogni poesia è un mondo a sé, ma nello stesso tempo si lega a quelle che l’hanno preceduta, restituendoci atmosfere e stati d’animo di giorni che non possono tornare, che non torneranno. È l’aria del suo «tempo», aria «de quj vûs vöj ch’j strengen dent la vita» (di quelle voci vuote che stringono dentro la vita). È l’aria di Milano, quando l’ottobre muore, il sole tramonta presto e in lontananza si sente (o si sentiva) un canto. E «par vûs del cel o vûs d’un vècc cantà» (E pare voce dal cielo o voci d’un vecchio cantare).

 

Intanto la «silenziosa luna», la «solinga, eterna peregrina» amata da Leopardi, non si stanca di illuminare i «prati lontani» e le case vicine, i martiri di San Vittore e le balere, dove, a guerra finita, i milanesi sono presi dalla smania di ballare, e ballano di continuo, per ritrovare la gioia di vivere, una gioia che era stata loro negata per troppo tempo. Tutti i cortili di Milano diventano sale da ballo a cielo aperto, con festoni, lampadine foderate di carta rosa e un senso di sollievo inesprimibile. Un odore di libertà che dà alla testa e che il poeta ha fissato nel poema de L’Angel in versi memorabili. Tra un verso e l’altro si affaccia, a tratti, l’amore: come memoria, come dolcezza di quel ricordare. Ancora una volta Milano è il palcoscenico variegato e convulso dove ha vissuto quasi tutta la sua esistenza Franco Loi, che l’ha cantata nella poesia e l’ha amata di un amore immenso: «Milan, mia spusa de milanes furest, / citâ de lüna fucsia… » («Milano, mia sposa di milanesi forestieri, /città di luna fucsia», da Aquabella, 2004, p. 19), «e forsi gh’è, luntan, quajvün che canta» (e forse c’è, lontano, qualcuno che canta). Loi ha conosciuto la paura dei bombardamenti, l’angoscia per i morti ammazzati, la fame, ma non ha mai perduto la sua gioiosa, totale adesione alla vita. «Mancava el pan, mancava el vulavent, / rubaum legna per scaldàss la storia / di mort in strada, di nost amîs massâ» (Mancava il pane, mancavano le comodità, / rubavamo la legna per lenire la storia / dei morti in strada, dei nostri amici uccisi), «ma gh’evum dent ’na vöja de baldoria», ma avevamo dentro una voglia di gioia (Se vardi el mund, ven sü un olter mund: Se guardo il mondo, emerge un altro mondo). Tra un verso e l’altro si affaccia, a tratti, l’amore: come memoria, come dolcezza di quel ricordare e del grande silenzio del mondo. Come la luce negli occhi di una donna o lo splendore della luna, sempre lontana, «ma quando l’aspetti, lei è lì, nel cielo» e tu non sai più se è la stessa luna che imbianca silenziosa i tetti del borgo leopardiano o la ragazza che ami: L’û ’ista in sogn ne la sua belessa (L’ho vista in sogno nella sua bellezza, p. 27). La vita stessa, la «calda vita», la sentiamo scorrere come un fiume nella fiammeggiante poesia autobiografica di Loi, che ha imparato a scrivere partendo sempre dalle proprie esperienze. La poesia di Loi è un’autobiografia scandita in grandi quadri, la narrazione in versi, trasfigurata, della sua vita, delle sue esperienze, dei luoghi e delle persone che ha conosciuto e a cui ha voluto bene. Del resto, alla scrittura di memorie questo poeta ha dedicato la più gran parte della propria esistenza, riempiendo più di cento quaderni della sua grafia minuta. Ma abbiamo tutti un bisogno disperato di maestri che ci guidino, che ci diano coraggio, che ci accompagnino nel nostro cammino: dietro Franco Loi intravediamo figure carismatiche, che hanno contribuito in maniera decisiva alla sua formazione: tra loro, un posto di assoluto rilievo spetta a Giulio Trasanna (1905-1962), un personaggio singolare che lo ha iniziato alla lettura e alla scrittura. La più grande passione di Trasanna era però l’astronomia, una passione che seppe trasmettere ai suoi giovanissimi allievi di un paesetto del Friuli, Grizzo, dove era andato ad abitare, perché diceva che «le stelle ci parlano della nostra vita» (in Da bambino il cielo. Autobiografia, Garzanti 2010, p. 154). Tra gli amici che più hanno contribuito alla formazione di Loi, ci sono stati anche i pittori, due in particolare: il pittore e poeta veneziano Eugenio Tomiolo (1911-2003) e il milanese Ernesto Treccani (1920-2009).

La lettura delle poesie scelte per questo nuovo libro ci spalanca dentro finestre che sembravano sigillate da sempre e per sempre, sospingendoci verso un altrove che vive solo nei versi: «Mi seri che la strada camenava / tra j òmm ch’j me cureva incuntra / e ’l temp l’era de sass cume la lüna… » (Io ero che la strada camminava / tra gli uomini che mi correvano incontro / e il tempo era di pietra come la luna …, p. 41). Quel tempo di «pietra», quell’ «aria della luna» non si dimenticano facilmente. Così come non si può ignorare l’impeto dei versi d’amore, perché «L’amur l’è cume un vent, el riva fort, / pö se sluntana e lassa i so recòrd… » (L’amore è come un vento, arriva forte, / poi si allontana e lascia i suoi ricordi…, p. 35).

Appare evidente la grande varietà di temi, di ritmi e di suoni delle poesie proposte, musiche diverse che armonizzano tra loro e nelle quali c’è tutto Loi, con i suoi slanci verso la vita («Oh quan’ la vita la te bràscia al vent»: Oh, quando la vita ti abbraccia nel vento), con la sua Milano («Quan’ mai de gent s’encuntra per Milan»: Quanta gente s’incontra per Milano, p 25.), con il ricordo degli amici, i versi leopardiani alla luna, il suo guardarsi dentro («E l’aria de la lüna l’era l’aria / de la mia vita scunda al fund de mì»: E l’aria della luna era l’aria / della mia vita nascosta in fondo a me, p. 41); il pensiero della morte («El penser de la mort l’è ’n nost penser») e la sua tensione verso il divino («Ah cume Diu l’è giüst nel so cantà! / ah ’me l’abièss l’è verd del so sperà!» (Ah come Dio è giusto nel suo cantare! / Ah come l’abete è verde del suo sperare!, p. 58). La vita, l’amore, la luce della luna, l’aria della notte, la paura della morte, le strade di Milano, il dialogo con Dio e infine o forse in principio, l’Angel. Loi ha cominciato a scrivere nel 1972 questo poema centrato su un personaggio particolare che finisce in manicomio per aver esternato le proprie convinzioni, viene curato e torna a vivere una vita normale o quasi. Sfiora il suicidio, ma supera le sue crisi e riscopre il divino dentro di sé.

Quello de L’Angel è un romanzo in versi che non ha ancora conosciuto la parola « fine», uno stupendo «poema in cui storia ed escatologia, terra e cielo, vita e morte si incontrano e scontrano» (Gianfranco Ravasi, in Presentazione di El Natal, di Basilio Luoni, Nodo Libri, Como 1994). Potrebbe essere qui, in questo nuovo libro, la conclusione de L’Angel, che sembra proprio uscire di scena con l’ultima bellissima lirica del volume, Che ben che g’û vursü mì a la vita (Che bene che ho voluto io alla vita), esemplare dell’atteggiamento verso la vita di questo poeta: «Ah via Teodosio, mia via Pantera, / bèj strâd de la mia vita, bèla gent… / mì sun passâ tra vialter ’me na spera / che sta ne l’aria e nel vardà spariss… » (Ah via Teodosio, mia via Pantera, / belle strade della mia vita, bella gente… / sono passato tra voi come una spera di sole / che sta nell’aria e a guardarla sparisce, p. 80).

Franco Loi ha sempre portato da per tutto la sua poesia: nelle scuole, nei teatri, in sale bellissime del centro storico e in locali male illuminati delle periferie. Rischiarati però, ogni volta, dalla luce tutta speciale della sua umanità. E i ragazzi lo capivano e lo amavano.

Fra i tanti episodi legati proprio alle scuole, Loi ne ha scelto uno particolarmente significativo su cui mi sembra si possano chiudere, nel segno della sua parola «fraterna», queste annotazioni: «A Milano al QT8, in una scuola media, ho avuto un incontro con tutte le classi riunite. Alla fine della lettura e dopo il dialogo con i ragazzi, mi si avvicina un tipo tutto trasandato, dagli occhi accesi, i capelli nerissimi. Era molto emozionato. Mi apre una mano e, senza dir niente, ci mette un portachiavi di cuoio. ‘Grazie’ mi dice. ‘Sono un rom.’ Non faccio in tempo a rispondergli che lui scappa via e scompare in mezzo alla folla» (Da bambino il cielo. Autobiografia, cit., p.358).

 

 

da Voci d’un vecchio cantare, Il Ponte del Sale, Rovigo 2017

 

L’aria la me möv e l’è de prèja

ch’inturn a mì la picca la giurnada…

Ah aria del mè temp, ah pês de prèja

che ferma i mè penser e sbianca ’l cör

de quj vûs vöj ch’j strengen dent la vita…

 

L’aria mi muove ed è di pietra /che intorno a me picchia la giornata… /Ah aria del mio tempo, ah peso di pietra /che ferma i miei pensieri e sbianca il cuore /di quelle voci vuote che stringono dentro la vita…

Gh’è ’me quajcoss de fermu, la natüra

che balla e cambia e tütt se möv e parla…

Gh’è nient. E pö la lüs e l’aria, vûs luntan,

leggera dunda ’na föia e dré la müra

se pasma l’erga: chi l’è che ciamaran?

Par che se svelia el mund quan’ tì te ’l vàrdet

e gh’è un suspîr ne l’aria per quèj che san.

C’è qualcosa di fermo, la natura /che balla e cambia e tutto si muove e parla… /Non c’è niente. E poi la luce e l’aria, voci lontane, /leggera dondola una foglia e dietro la mura / s’abbraccia l’edera: chi chiameranno?/ Pare svegliarsi il mondo quando tu lo guardi /e c’è un sospiro nell’aria per quelli che sanno.

L’û ’ista in sogn ne la sua belessa

e me pareva de brascià la lüna

nel so bel corp de lüs, quèl fiâ de ner,

quèl so respir che anfava ’me ’na düna

quand el desert el brüsa del so nient

e mì… Sé dì de mì?… nel so mister

pareva de giügà in scòss al vent

tra quèl luntan che semper l’è la lüna

quan’ te la spèttet e lé l’è lì, nel cel.

 

L’ho vista in sogno nella sua bellezza /e a me pareva d’abbracciare la luna /nel suo bel corpo di luce, quel fiato di nero, / quel suo respiro che ansimava come una duna / quando il deserto brucia del suo niente /e io… Cosa dire di me?… nel suo mistero / pareva di giocare in grembo al vento /tra quelle lontananze in cui sempre è la luna / quando l’aspetti e lei è lì, nel cielo.

Se in cel slisa la lüna e enamurà

te fa de lé, l’è assé vardà a l’insü…

Dumâ se passa i nüver o al so slünà

la se scund nera e l’òm le lüma pü…

Ma quand desamurada la mia tusa

la par nascùndess e la tröi pü,

sé fann i nüver? e perché sta tusa

ghe l’û davanti e j öcc la veden pü?

 

Se in cielo scivola la luna e innamorare /ti fa di lei, basta guardare all’insù… /Soltanto se passano le nuvole o al suo slunare / si nasconde nera e l’uomo non può vederla… / Ma quando disamorata la mia ragazza /pare nascondersi e non la trovo più, /cosa fanno le nuvole? e perché questa ragazza / ce l’ho davanti e gli occhi non la vedono più?