Trouver Trieste? Sì, ma senza capirla

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di Roberto Curci

“La cultura / poi ti cura / con premura” ironizzavano quei pionieri del rock demenziale che erano gli Skiantos di Freak Antoni (Bologna, 1978). Forti di una buona dose di preveggenza (che gli faceva cantare pure “Brucia le banke / bruciane tante”), già subodoravano che la cultura non avrebbe curato proprio nulla e nessuno; e tanto meno lo fa quarant’anni dopo, quando sembra diventata una parolaccia da usare con cautela solo in qualche riserva indiana di patetici sopravvissuti o in clubini molto esclusivi e carbonari.

Sarà l’età (lo è certamente), ma capita – rovistando tra vecchi libri e vecchie carte – di ripescare reperti che quasi quasi strappano una lacrimuccia: di tenerezza, di nostalgia, ma forse anche di rabbia. Capita dunque, restando nel recinto degli appestati che, di soppiatto, di cultura ancora si nutrono, e per rimanere nel circoscritto perimetro della città in cui si vive, di localizzare due correlati volumi che, pubblicati cinque anni dopo l’album degli Skiantos, fanno davvero rimpiangere quello che – facendo sistema, come si suol dire – all’epoca era ancora possibile mettere egregiamente in piedi.

Firenze, 1983 appunto, Leo S. Olschki editore: Intellettuali di frontiera. Triestini a Firenze (1900-1950), atti del convegno a Palazzo Strozzi, 18-20 marzo di quell’anno remoto. Primo volume: Relazioni. Secondo volume: Comunicazioni e contributi.

Diciamolo. Da quel 1983 non c’è stato più (meno un’eccezione, di cui diremo) alcun generoso tentativo di carotaggio globale nella cultura triestin-giuliana della prima metà del XX secolo: per cui, indubbiamente, quella di Olschki appare oggi un’iniziativa (anche editoriale) di eccezionale valenza, che supera e supererà i decenni con la mappatura minuziosa di uno sfaccettato macrocosmo letterario, artistico e musicale.

Fondamentale fu, allora, proprio quel fare sistema di cui, oggi più di ieri e meno di domani, si avverte la tragica assenza. Il progetto era del Gabinetto scientifico-letterario Viesseux, col concorso del Comune di Firenze, e vi aderirono il Comune, la Provincia e l’Università di Trieste, la Regione Friuli-Venezia Giulia e quella toscana, nonché la Provincia e l’Università di Firenze. Tempi di vacche grasse, si dirà. Certo. Ma anche tempi di menti lucide, agili e collaborative. Nel comitato scientifico, presieduto da Ernesto Sestan, erano – tra gli altri – Elio Apih, Eugenio Garin, Giorgio Luti, Alessandro Bonsanti, oltre ai “nostri” Claudio Magris ed Elvio Guagnini.

Il 1983 era l’anno del centenario della nascita di Saba. Ma quello fu solo il pretesto. Tutto era iniziato già nel 1981, e c’erano voluti quasi due anni di lavoro per mettere insieme il composito puzzle, che comprendeva contributi e riflessioni di personaggi quali Angelo Ara, Alberto Asor Rosa, Ottavio Cecchi, Umberto Carpi, Giorgio Negrelli, Giorgio Cusatelli, Marino Raicich. Un’esperienza culturale unica, che tale è rimasta. Un’esperienza – vien da dire – irripetibile, con la subentrata arteriosclerosi delle idee e dei quattrini, ma soprattutto del coraggio intellettuale, che i nostri anni impongono e di cui, anzi, si vantano.

Passarono appena due anni, e il botto fu ancora più clamoroso. Non so quanti ricordino, oggi, il “Trouver Trieste” (certo più di quanti ricordano l’Intellettuali di frontiera…): ma quella fu davvero l’occasione più ghiotta e preziosa che una città assai mitizzata ma troppo timida e defilata potesse concedersi. “Trouver” una capitale mondiale quale Parigi disposta a ospitare, in più sedi, tutte prestigiose, con tanto di mirati e ben fatti cataloghi (Electa), i diversi aspetti della multiculturalità triestina, poteva sembrare (e sembrò, al primo sentirne parlare) una boutade di dubbio gusto.

Invece accadde. E fu un trionfo. Diamo a Cesare ecc. ecc. All’epoca era sindaco Franco Richetti, l’assessore alla cultura era Arnaldo Rossi. Ma poi, per la parte operativa: Luciano Semerani, Paolo Fabbri, e nel comitato scientifico nomi come quelli di Raffaello de Banfield, François Burckhardt, Darko Bratina, Paolo Budinich, Roberto Damiani, l’inevitabile Magris, Yves Hersant, Stelio Mattioni.

Scusateci se insistiamo sui nomi. Ma sono questi il filo forte di un nodo, ieri ben difficile, oggi improponibile, da stringere. Aggiungiamoci ancora il sommo Massimo Vignelli alla direzione artistica, lo Studio Tassinari/Vetta al coordinamento grafico, una studiosa qui sorprendentemente sottovalutata e sottoutilizzata quale Luisa Crusvar (arti visive) e l’indimenticabile Annamaria Percavassi (sussidi audiovisivi). E diciamo pure che per il solo “Un regard retrouvé” (la sezione cinematografica) si riunì uno staff stellare formato da Lorenzo Codelli, Callisto Cosulich, Alberto Farassino, Sergo Grmek Germani, Tullio Kezich, Annamaria Percavassi. Ovvero, la crème de la crème.

Che dire? Che simili occasioni sono (lo si è detto) irripetibili, e che averne sfruttato solo in minima parte le possibili ricadute è (anzi fu, al tempo) un gran peccato. Oggi, si sa, “trovare Trieste” è diventato facile, Tripadvisor & Co. imperversano, a Ferragosto e a Capodanno alberghi e locande sono strapieni. Bene. Ma turismo non fa ancora rima con cultura, è un erratico random-turismo spesso dovuto al fatto che tutti hanno già visto tutto, meno quella bizzarra e misteriosa città che se ne sta lassù, in cima all’Adriatico, italiana sì, ma anche – pare – mezza slava e un po’, forse, ancora austriaca. Chi ne riparte, visivamente affascinato, non ha certo fatto in tempo a captarne il complesso genius loci. Attendiamo dunque, pazienti, che a questi visitatori succeda prima o poi il miracolo: che “la cultura / poi li curi “, anche senza premura.