Due dimore per due inquilini illustri

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Villa Economo e Villa Lazarovich, dove abitarono rispettivamente Sir Richard Francis Burton e Pier Antonio Quarantotti Gambini

di Enzo Santese

 

 

Trieste ha avanzato la propria candidatura alla nomina di “città creativa per la letteratura” nell’ambito dell’ambizioso progetto tendente all’inserimento nella “Rete delle città creative dell’Unesco”; questa è stata creata nel 2004 per la cooperazione tra i centri che hanno posto la creatività nei vari settori culturali come piattaforma di crescita urbana sostenibile. La città giuliana ha le carte in regola per ottenere il riconoscimento non solo per il cumulo di iniziative attuali, ma per l’eredità di una storia punteggiata da personalità che hanno prodotto un riverbero su un vasto scenario nazionale e internazionale. La testimonianza diretta dell’impegno profuso sta nei loro libri e, talora, nella realtà fisica di residenze capaci di suggestioni e riverberi letterari. Tra queste un cenno particolare meritano due dimore importanti, delle quali ha già parlato Roberto Curci nello scorso numero del Ponte rosso: la Villa Economo, abitata da Sir Richard Francis Burton e la Villa Lazarovich, che ha avuto tra i suoi inquilini anche Pier Antonio Quarantotti Gambini.

La prima, situata alla confluenza del viale III Armata con la via Combi, si prospetta sul largo Promontorio con la sua imponenza di tono neoclassico. Un ricco commerciante di tabacco e mercurio d’idria, l’inglese George Hepburn, la fa costruire nel 1817 con un ampio giardino attorno. Nel 1838 l’edificio viene venduto all’industriale ungherese Francesco Gossleth, noto per la sua falegnameria di grande pregio, chiamata a fornire mobili e arredi vari anche al Castello di Miramare e al Palazzo del barone Revoltella, assieme al quale nel 1850 fonda la “Scuola domenicale di disegno per artigiani”. L’istituzione è diretta da Giovanni Moscotto, artigiano intagliatore e indoratore molto apprezzato per la raffinatezza delle esecuzioni molto vicine a risultati d’arte.

La facciata così come appare oggi – una loggia centrale con quattro colonne corinzie a sostegno di un timpano con cornice dentata – è il risultato dell’ampliamento del 1859 commissionato dal titolare all’architetto Valentino Presani, di Udine.

In seguito dopo un cambio di proprietà da Gossleth alla figlia Emma, la residenza è acquistata dal barone Leo Economo, industriale impegnato con Edmondo de Richetti nella gestione dei suoi “Oleifici triestini”.

Nel 1883 viene affittata a Sir Richard Francis Burton (nato nel 1821 a Torquay in Gran Bretagna), console inglese che negli interessi di studio, nelle sue esplorazioni antropologiche, negli atteggiamenti del quotidiano, nella disinvoltura a esporsi come pietra dello scandalo oltrepassa i limiti imposti dalla sobrietà diplomatica. Si dedica con passione autentica a un genere in cui ottiene una riconosciuta specializzazione: traduce “Le notti arabe” pubblicate in sedici volumi dal 1885 al 1988 con il titolo Le mille e una notte, il manuale di piaceri spiccioli Kamasutra e L’arte indù dell’amore, infine il vademecum arabo di erotismo Il giardino profumato delle delizie sensuali. La prima è l’opera sicuramente più famosa che pone l’autore su un piedistallo di attenzione andata ben oltre il suo segmento biografico; Sir Burton stesso dice di averla scritta quasi interamente nel sito dove oggi ci sono i resti (ahimè!) dell’Hotel Obelisco di Opicina, un luogo dove la magia della visione prospettica può trasportare chi guarda il panorama in una dimensione fantastica. D’altro canto Sir Richard ne è talmente affascinato che ne parla come del più bel punto d’osservazione del mondo (“finest view in the word”). Personaggio indubbiamente eccentrico, ma dotato di una curiosità che lo porta a indagare sui costumi dei popoli con i quali entra in contatto, soprattutto indiani e arabi. Coltiva e realizza un progetto per molti aspetti incredibile: studia e assimila la lingua pashtu del popolo omonimo che abita l’Afganistan sud-orientale e parte del Pakistan. Camuffato proprio da pashtun riesce addirittura a recarsi alla Mecca nel 1853, rendendosi protagonista di un’impresa che contribuisce a creare l’alone di leggenda intorno alla sua figura.

Dopo un lungo periodo di salute malferma, si spegne a Trieste il 20 ottobre 1890.

L’altra residenza è la Villa Lazarovich in via Tigor 27. Tutta la zona attorno, nei primi decenni dell’‘800, ha un aspetto veramente idillico essendo circondata da pascoli e prati. D’altro canto il nome della via (Tigor) ha il significato di “terreno posto su un rilievo e senza colture”. La posizione è invidiabile soprattutto perché consente una visione quasi grandangolare del mare e della città; per questo è ambita dai facoltosi commerciati stranieri insediatisi a Trieste. Ne consegue un veloce processo di urbanizzazione con la costruzione di varie villette signorili. Tra queste, villa Lazarovich viene costruita per conto di Cesare Abramo de Cassis Faraone, figlio di un fratello del conte Antonio. La funzione originaria è quella di casa di campagna di modeste dimensioni, a un piano con un corpo centrale più elevato. Nella metà degli anni ’50 comincia una serie di modifiche e ristrutturazioni che, per passaggi successivi, la dotano di una sala che sbocca su una grande terrazza, poi di una torretta semicircolare e una loggia. Nel periodo tra il 1851 e il 1857 diventa la residenza di Massimiliano d’Asburgo.

Dalla fine degli anni ’30 alla seconda metà dei ’40 del novecento la villa ospita stabilmente Pier Antonio Quarantotti Gambini (1910, Pisino d’Istria – 1965, Venezia), che dal 1942 al ’45 dirige la Biblioteca Civica di Trieste e subito dopo, fino al ’49, opera nell’emittente clandestina “Radio Venezia Giulia” a Venezia, altra città d’elezione dove risiede per il resto della sua esistenza.

La curiosità intellettuale e l’impegno professionale di cronista lo portano a numerosi viaggi in varie parti d’Europa, negli Stati Uniti d’America e in Russia. Un’attenzione profonda ai fatti della contemporaneità e una scrittura efficace e disinvolta gli consentono di collaborare con numerosi quotidiani, tra cui La Stampa, il Corriere della Sera, Il Tempo e con riviste tra le quali Solaria, La Fiera Letteraria e Il Ponte.

La sua stagione narrativa è particolarmente felice: nel 1948 gli viene assegnato il Premio Bagutta col romanzo L’onda dell’incrociatore, nel 1962 il Premio Ceppo con il racconto La lettera, nel 1964 il Puccini-Senigallia con I giochi di Norma. La sua narrativa si presta a una traduzione cinematografica come dimostra il regista francese Claude Autant-Lara con Les régates de San Francesco, strutturato sulla materia offerta da L’onda dell’incrociatore; poi il regista Florestano Vancini utilizza la vicenda de La calda vita per realizzare un film dallo stesso titolo. Pier Antonio Quarantotti Gambini rimane legato affettivamente a Villa Lazarovich a tal punto che nel 1962 si fa promotore di un appello contro la sua demolizione, prevista per far posto a un edificio di dimensioni maggiori. L’azione dello scrittore va a buon fine, con l’imposizione di un vincolo che, se non altro, salva la facciata da un’inutile e ingiustificata cancellazione.