Due film italiani a Cannes

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Due film italiani a Cannes

di Gianfranco Sodomaco

 

Due anni fa, quando pubblicai il mio Tre anni di cinema attraverso la storia (Battello, 2014), volli in copertina due scene tratte da Il capitale umano, di Paolo Virzì. Era, secondo me, un omaggio al film più bello della stagione e a un grande regista. Quest’anno, dopo aver visto il suo La pazza gioia, passato al Festival di Cannes (alla Quinzaine des Realisateurs, non al Concorso vero e proprio), la delusione è stata piuttosto forte. Perché? Perché Virzì, toscano di razza, è un regista ‘oscillante’, oscillante tra la classica commedia all’italiana e il cinema d’impegno sociale. Basti ripensare a certe opere come Ferie d’agosto (1996), Tutta la vita davanti (2008) e La prima cosa bella (2010). Con Il capitale umano sembrava aver fatto un salto definitivo in direzione dell’impegno sociale ma con La pazza gioia è ricaduto, al di là delle apparenze, nella commedia all’italiana, peggiorandola. Sono sicuro che molti non la penseranno come me perché Virzì ha affrontato un tema importante, soprattutto in una città come Trieste, come quello del disagio psichico e della struttura psichiatrica. C’è stata addirittura la consulenza di Beppe Dell’Acqua, operatore medico che ha lavorato al fianco di Franco Basaglia per anni e uno dei promotori dell’operazione ‘Marco cavallo’. E allora? E allora un conto è l’idea, il punto di partenza, la storia di due donne ‘ospiti’ di un istituto terapeutico per donne ‘moderno’, villa Biondi (siamo nella Toscana cara a Virzì) che, quasi da subito, struttura aperta, fuggono e vivono una loro avventura e un conto è il modo, la forma, con cui il regista rappresenta questa avventura. Ebbene, ciò che salta presto agli occhi è l’eccessiva commistione di sottostorie, luoghi, personaggi, amori, famiglie eccetera, talmente articolato che a un certo punto lo spettatore rischia di perdere il filo del racconto: c’è una prima parte da ‘commedia’, dove le due donne, nonostante l’estrema diversità dei loro caratteri, cercano di divertirsi in tutte le maniere, anche, diciamo così, illegali come, per fare qualche esempio, furti di macchine, cene non pagate e fughe senza precise mete; per l’amor di dio, nessun moralismo, pur nella loro diversità, sono due donne con grossi problemi psichici, di comportamento e quindi questa riacquistata ‘libertà’ ha una sua spiegazione.

Beatrice Morandini Valdirana (Valeria Bruni Tedeschi) ha tutti i tratti della mitomane dalla parlata inarrestabile mentre Donatella Morelli (Micaela Ramazzotti) è una giovane madre tatuata cui è stato tolto il figlio per darlo in adozione. Ambedue sono state oggetto di sentenza da parte di un tribunale e quindi devono sottostare a una terapia di recupero. La seconda parte, dopo la fuga e ‘la pazza gioia’, fa emergere, inevitabilmente, l’entroterra familiare delle due donne, abbandonate, separate ma desiderose di tornare a quelle origini, di ritrovare i figli, le case da cui sono state allontanate. In un modo o nell’altro ce la faranno e l’amicizia che hanno costruito, nonostante le loro tante differenze psicologiche e sociali, resterà (e lo vedremo nell’ultimo sguardo che si scambieranno nell’ultima scena), a conferma di una punta di ottimismo che il regista vuole mantenere nei confronti del mondo femminile. Un’ultima nota: non ho potuto fare a meno di confrontare la lettura che alcuni film (o sceneggiati televisivi italiani) hanno fatto dell’esperienza/lezione basagliana con la descrizione che ne fa Virzì. Bene: laddove nel primo caso emerge una serietà di impostazione nel ‘negare l’istituzione manicomiale’ (da L’istituzione negata, libro fondamentale di Basaglia) ne La pazza gioia, invece, terapeuti e assistenti sociali combattono le varie patologie maldestramente (su certi aspetti della vita è molto difficile saper far ridere) con visioni banalmente punitive che nulla hanno a che vedere con il recupero sociale. Insomma, ciò che si diceva all’inizio: per tenere in equilibrio, in termini di narrazione, di sceneggiatura, la ‘gioia’ e la ‘pazzia’ bisogna essere dei maestri (si pensa a certi classici come Chaplin) e il nostro Virzì è un bravo professionista, ma un maestro…

Sempre al Festival di Cannes, sempre alla Quinzaine dei Realisateurs, è stato presentato Fiore, di Claudio Giovannesi. È un piacere ricordare che Giovannesi ha girato,nel 2012, Alì ha gli occhi azzurri, storia di un sedicenne musulmano nato in Italia, Nader, in conflitto con i suoi genitori e con la società, ma amico e complice di Stefano con cui conduce le sue malefatte tipicamente ‘borgatare’. E di chi poteva essere una storia del genere se non di Pier Paolo Pasolini, tratto dalla poesia Profezia, contenuta in Il libro delle croci (1964). Ebbene, Fiore non si discosta molto dal film precedente, confermando la ‘fedeltà’ di Giovannesi a quel mondo, cambiato semmai in peggio. Fiore è la storia di Daphne (Daphne Scoccia, esordiente trovata tra i tavoli di un bar romano), rapinatrice adolescente finita in un carcere minorile. Temperamento chiuso e dall’aria feroce (ma con un fondo dolce), la ragazza sbircia nell’edificio accanto che ospita la sezione maschile. E qui incontra, dietro altre sbarre, Josh (Josciua Algeri), detenuto anche lui per rapina. Nascerà tra i due un amore, ma mica semplice, e non solo per l’ambiente particolare in cui nasce e si sviluppa, ma anche per la durezza dei sentimenti che Daphne vive con tutti, compreso il padre (Valerio Mastrandrea, forse il miglior attore italiano, anche per il suo impegno produttivo in film niente affatto scontati come Non essere cattivo, di Claudio Calegari (2015), deceduto subito dopo la fine delle riprese. Giovannesi non concede alcun autocompiacimento sentimentale, l’atmosfera, dopo oltre metà film, è sempre quella, quasi claustrofobica, della vita del riformatorio, poi, dopo incomprensioni tra Daphne e Josh, dopo una specie di vacanza-permesso al mare col padre, anche lui frequentatore delle patrie galere, i due ragazzi decidono di sfruttare l’occasione del permesso (lui nel frattempo è uscito) per fuggire, inseguiti dalla polizia, per andare, col treno, a…. Fin troppo pesante in certi passaggi, il film si fa apprezzare però per quel ‘soldo di speranza’ che vuole conservare ad ogni costo, la speranza che anche i fiori possano crescere nel letame o nelle fessure dei marciapiedi.