Echi della Grande Guerra

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Una nuova edizione per Introduzione alla vita mediocre di Arturo Stanghellini

di Fulvio Senardi

 

Per merito di Tarka editore (Mulazzo, Pontremoli) ritorna in libreria Introduzione alla vita mediocre. Dal 1916 al dopoguerra passando per Caporetto (p. 198, ε 15,50) di Arturo Stanghellini (1887-1948), versatile scrittore pistoiese che fu, durante la Grande Guerra, ufficiale della Brigata Pinerolo e visse sul fronte carsico una lunga parentesi di vita sofferta ed intensa, una lama che taglia per metà il corso lineare di un’esistenza “mediocre”, come volle definirla con un understatement che nulla ha di sprezzante, tutta dedicata allo studio, alla scrittura, all’insegnamento. La presentazione è firmata da Giovanni Capecchi, studioso di lungo corso della letteratura della Grande Guerra (Lo straniero nemico e fratello. Letteratura italiana e Grande Guerra, 2013; I fronti della scrittura, 2017) e curatore, nel 2007, di una delle poche edizioni del diario di guerra di Stanghellini. Diario, in realtà, di caratura particolare perché, come spiega Capecchi, vi domina un «andamento lirico» e le annotazioni non portano sempre la data della stesura, come in un diario propriamente detto, ma spesso invece un titolo (Teleferica, La campana di Palmanova, Doline, La sera, ecc.) per contiguità con le consuetudini della prosa d’arte che andavano imponendosi negli anni in cui Stanghellini trasformò gli appunti di trincea nel libro che leggiamo. Mantiene invece l’andamento scorrevole (e a tratti, anzi, affannoso) tipico del diario una sezione centrale dedicata alla ritirata di Caporetto: lì le date si assiepano, il ritmo si fa veloce, con una resa perfetta di quelle che dovettero essere allora le ambasce del cuore in soldati che vedevano crollare il sogno di vittoria e la stessa esistenza dello Stato italiano venir messa in questione. «La tristezza non ha dunque un fondo nella vita?», annota Stanghellini in data 28 ottobre, «tutto è caduto come un castello di carte. È inutile scrivere. Il cuore ricorderà». Continuerà invece a scrivere il giovane ufficiale, nei mesi della ritirata e più oltre, registrando la rabbia, lo scoramento, le viltà, ossequioso dei gradi (nessuna critica agli alti comandi, il tenente Stanghellini sa stare al suo posto) ma non scarso di comprensione per gli sconfortati. Vinta la battaglia d’arresto sul Piave, mentre s’annuncia la ripresa dei vecchi schemi della guerra di posizione, Stanghellini è a fianco del ministro Comandini: «par che brami riempirsi d’ogni tristezza perché in Italia il suo appello alla resistenza sia caldo e vibrante di quella dolorosa passione che è il nostro ansioso e continuo respiro». Il ritorno, pur nella vittoria, ha un retrogusto amaro, come spesso presso reduci che temono di aver mancato l’appuntamento con la vita. «Siamo i morti nella vita», scrive. «Siamo gli inetti davanti a chi s’è fatta un’esperienza cinica negli affari, davanti a chi in nostra assenza si è costituita una comoda trincea nella vita. Si può parlare il nostro linguaggio a costoro? Si può rinunziare alla nostra purezza fiorita sotto gli aperti cieli della guerra nutrita di sacrifici accettati anche senza fede ma con la sublime devozione della testa china?». Misurando il fallimento del tentativo di raggruppare in un movimento politico gli ex-combattenti (le elezioni del ’19 sancirono la vittoria di chi si era opposto alla guerra, i socialisti e i cattolici) Stanghellini ha parole di saggezza: «la qualifica di combattente non basta: nemmeno può essere garanzia di maturazione politica, perché in molti la guerra non ha maturato proprio niente.» E poi: «il dovere è elezione», pensiero che brucia come un’ustione dolorosa per chi accetta l’inevitabile, ovvero «rientrare nella vita e accomodarmi coi farisei […] e sopportare le punture delle mediocrità ben pensanti e lasciarmi chiudere le memorie nel cuore». Nel cuore non sono rimaste. Con un trapasso comune a molti scrittori della Grande Guerra la nota di diario è divenuta pagina (si pensi solo al nostro Giani Stuparich), più e meno fiorita a secondo del talento, ma tutte invariabilmente attraversate da un accento di verità che commuove. E tutte accese dalla convinzione, sotto il profilo morale ed esistenziale, che «nella lunga via dritta tracciata passo passo da me, non sarà possibile avanzare mai più».