AUSTRALIA 4 – THE TRACK

| | |

australiaLa Stuart highway, l’87, o semplicemente The Track, come la chiamano qui. Quasi 3300 chilometri che collegano Darwin e Adelaide, l’Arafura sea ed il Southern ocean, tagliando in due il continente e seguendo il percorso tracciato e battuto da McDouall Stuart nel 1862, il primo uomo ad attraversare l’Australia da sud a nord. Ma di quell’impresa, di polvere e fatica da spezzare con gli zoccoli lenti dei cammelli e con il coraggio rigido di esploratori, allevatori, cercatori d’oro e di libertà, ne è rimasto ben poco. La Stuart highway ,ora, è solo asfalto senza fine, sgretolato nastro di bitume che trasporta ogni anno decine di migliaia di turisti all’interno della loro avventura venduta a pacchetti nelle agenzie viaggi di tutto il mondo. È solo corsa veloce, verso sud o verso nord poco importa, per vecchi con cappellini e cineprese che salgono e scendono da pullman aria condizionata e tv per ammirare le bellezze del mondo down-under. Strada di gente in fila sotto il sole per vedere ammirare e rubare alla terra qualcosa che neanche loro sanno cosa sia, per calpestare e pagare ogni respiro, ogni domanda, ogni pisciata. Strada con i dollari sempre in mano, pochi secondi d’emozione e fotografie al tramonto. La Stuart highwy, ormai solo tourist drive, la più cantata fotografata raccontata sognata e invasa strada d’Australia. Ma è sufficiente alzare il piede dall’acceleratore, essere un po’ pazienti e rispettosi, tirare il fiato per un attimo. La Stuart highwy ha bisogno di essere sentita metro per metro e non trafitta a 110 all’ora sperando che finisca il più presto possibile, come un brutto sogno. Ha bisogno di tempo, del suo e del tuo, forse di un tempo tutto interiore, antico. Ha bisogno d’ascolto, di complicità, di quasi amore. Sotto quell’asfalto c’è qualcosa che ti rimbalza dentro, che confonde il ritmo del cuore, che si incastra tra ossa e carne, che ti stupisce. Se ti fermi ad ascoltarla, rischi di perderti, di esserne risucchiato. Quando la vedi bucare l’orizzonte, laggiù, dove i tuoi occhi non ce la fanno, dove incontrano, sfiniti, solo supposizioni e mistero, qualcosa ti vibra sottopelle, avverti un senso di appartenenza, un richiamo che per la sua forza, però, ti fa allontanare, Ma non puoi farci niente, non puoi combattere, devi lasciarti accompagnare in quella terra di miti e di sussurri indefinibili, che è l’outback, luogo di spazi e di colori tesi, chiassosi. Devi fidarti, lasciare che tutto ciò che ti avvolge, parli la propria lingua. Non ci sono traduzioni. L’outback, è ciò che sta dietro, lontano, oltre le spalle, fuori e dentro di te. Certo, è il termine usato per indicare la vasta area interna dell’Australia, eppure questo non ci basta, non ci soddisfa del tutto, ci rimane quel senso di fastidio, di incompletezza, che ci agita. Questa intraducibilità non è solo una questione linguistica, perché l’outback è qualcosa che sfugge, che apre in noi un senso di vuoto, uno scarto, una pausa, una mancanza.

Qualcuno ha detto che definire l’outback e un po’ come tentare di definire la religione. Tutti sappiamo che esiste e che ha un grande significato spirituale, che ha a che fare con l’anima, con Dio, ma ognuno di noi ha un’idea tutta personale di cosa sia veramente. Io non so dire se c’entri o meno Dio, ma di sicuro la Stuart highwy ha a che fare molto da vicino con l’anima di chi la percorre. Qui il viaggio assume la sua dimensione più vera, più autentica, quella del movimento che scorda punto di partenza e d’arrivo, per essere solo esperienza che ti scaraventa dentro te stesso, quasi un pellegrinaggio, per chi ha capito che la sacralità del cammino sta tutta nel cammino stesso, nell’ascoltare il ritmo del proprio passo e scoprirci dentro il ritmo del mondo intero, il suo battito, la sua vita.

Seduto sugli scalini di fronte al piazzale di sosta, a Marla, “an outback oasis”, osservo incantato i road trains incrociarsi, tracciare rotte sorvegliate sull’enorme distesa di polvere che si alza in nuvole lente al loro passaggio. Con le loro sagome colorate, sferraglianti, enormi escono dalle pozzanghere di calore distese sulla strada e ti riempiono gli occhi. Ne senti la presenza, da lontano, ancora prima di vederli. Ne senti l’ingombro, la pressione sul petto, la vibrazione sotto i piedi. Sono loro che comandano, che non si spostano, che vanno avanti diritti, nonostante tutto, in ogni condizione, sempre, agitando la loro coda di rimorchi, lucette e cromature. Il codice della strada australiano dice che hanno la precedenza assoluta su tutte le strade, ma forse non è così, comunque, autorizzati o meno, i camionisti se ne fottono di chi hanno davanti, guardano lontano, forse troppo. Guardano a donne lasciate a casa chissà dove, donne che li attendono, donne che li tradiscono quando i bimbi sono a scuola, nei pomeriggi caldi che sciolgono ogni pudore, cosce aperte in leggeri vestiti a fiori che diventano sempre più corti. Guardano alla prossima stazione di servizio, alla faccia amica che ritroveranno, alla sosta, al riposo di una notte di birre e di stelle, prima di ricominciare. Uomini soli, uomini scalzi che gettano occhi persi sull’asfalto, cavalieri di ferro e di polvere, guardano ai 250.000 chilometri che percorrono di media ogni anno, e quanti ancora da fare, da consumare nella loro vita sulla strada, E per indicare tutto questo, solo un cartello ogni tanto: “CAUTION Road Trains 50 metres long”.

Marla è un luogo che non esiste, come molti altri qui in Australia, luogo di assenze e di spazi, Osservo degli aborigeni che buttano gli occhi al cielo persi in qualche loro sogno e nelle troppe birre bevute, seduti sul piccolo spiazzo erboso dove pochi alberi regalano un’ombra frastagliata di luce, e dove una grossa insegna della VB indica un modo, forse l’unico, di uscire vivi da questo posto. Dietro di me, in una minuscola stanzetta che fa da ufficio postale, una donna grassa timbra senza sosta cartoline e lettere che forse contengono le ultime volontà dei poveri disgraziati che per una ragione o per l’altra si sono fermati qui, e qui sono rimasti a morire.

Il pub è una lunga sala spoglia con tavoli di plastica, tipo quelli da giardino, un flipper, due giochini elettronici, monitor appesi alle pareti con i risultati delle corse, una ricevitoria del Lotto, delle poltrone messe in fila davanti ad una tv troppo alta, un biliardo e il bancone del bar con un pezzo di legno appeso dove c’è scritto Ernie Gides Bar. Mangio patate e carote, bevo VB e non trovo un benché minimo senso che tenga su la mia esistenza. Una famiglia cena in silenzio di fronte a due bottiglie di vino bianco. Un aborigeno con vestiti stracciati e luridi, berretto di lana e sigaretta incollata alle labbra, gira tra i tavoli e gioca a biliardo. Due poliziotti in completo kaki, stile Africa Korp, sorvegliano se stessi.

Fuori, l’aria immobile tormentata dal lento via vai di macchine, e persone che camminano come se fossero vuote, riempite d’aria, palloncini tenuti a terra da qualche filo ben nascosto ma che voleranno via, inevitabilmente, assorbiti dal nulla che circonda questa stazione di servizio. Piegato sul tavolo di formica verde, non posso non chiedermi come Bruce Chatwin, e come Rimbaud prima di lui in qualche malsana tenda africana, “Che ci faccio qui?”. È una domanda semplice, quasi banale, ma che trattiene in sé l’ansia e l’euforia del movimento, dell’irrequietezza, di quel nomadismo interiore ed esteriore che lo stesso Chatwin aveva individuato come antidoto, se non proprio cura, all’infelicità dell’uomo che, come ha scritto in un articolo del 1971, deriva “da una causa sola, non sapersene star quieto in una stanza”. È una domanda che ritma il movimento dell’esistenza, perché non si trova mai un senso preciso, soddisfacente al fatto di trovarsi in un certo posto, l’importante è esserci arrivati, per poi continuare a vagare. Chiedersi “Che ci faccio qui?” è un invito al viaggio.

Qui fuori c’è un ragazzo che sta viaggiando in bicicletta da Melbourne a Darwin. Ho sempre invidiato chi si getta in imprese del genere. Mille volte ho pensato, chiuso nella mia camera, a itinerari da percorrere in completa solitudine, lontano dal mondo e da tutto per trovare qualcosa che ancora oggi sento che mi manca, una sorta di equilibrio, di serenità, e pensavo si dovessero fare cose del genere, grandiose, per crescere in maniera giusta, sana. Vorrei pedalarti accanto, seguire i tuoi respiri, contare le gocce del tuo sudore, essere come te e invece mi accontento di vederti partire. Sei come un sogno che fugge. Di fronte a te, alle tue ginocchia scrostate dal sole, alle tue braccia tese sul manubrio, ai tuoi occhi densi e borse e cartine e nient’altro che il tuo cuore a sbatterti nel petto, mi sento poca cosa, una piccola merda di cane abbandonata qui a Marla, South Australia, a quasi 2000 chilometri da Darwin e 1138 chilometri da Adelaide.