Due signore

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ovvero come la solitudine può condurre alla crudeltà

 

Un palcoscenico, due attrici in scena, qualche elemento di attrezzeria, pochi artifici: è quanto basta per la lettura drammaturgica di Due signore, che conclude il 18 aprile la stagione di “Teatro a leggio”, organizzata dall’Associazione Amici della Contrada. Estremamente gradito il ritorno sul palcoscenico triestino del Teatro Bobbio da parte di Ariella Reggio, una delle due interpreti del testo, molto amata dal pubblico, che è stata assente a lungo perché impegnata nella tournée 2015/2016 di Calendar Girls, allestimento italiano dell’esilarante commedia di Tim Firth, tratta dall’omonimo film diretto da Nigel Cole.

Due signore è un’opera – non delle migliori – di Manlio Santanelli, autore napoletano contemporaneo, ampiamente lodato e premiato dalla critica, che annovera tra i suoi testi migliori: Regina Madre, Pulcinella (Premio Taormina Arte), rappresentato nel 1987 per la regia di Maurizio Scaparro e con Massimo Ranieri, L’aberrazione delle stelle fisse, Uscita di emergenza e altri. Nelle tragicommedie di Santanelli, i personaggi vivono situazioni quotidiane in modo nevrotico, intrappolati in rapporti che non hanno scelto, incapaci di trovare la strada per la libertà. La sua drammaturgia è influenzata dai grandi temi europei della letteratura del Novecento, in particolare dal teatro dell’assurdo di Ionesco, felicemente alleggerita dal melodramma italiano e dal teatro comico napoletano.

Autore interessante, definito un Harold Pinter all’ombra del Vesuvio: di certo i suoi personaggi cercano disperatamente di liberarsi dal malessere e dalla follia in cui vivono e, in particolare, le sue figure femminili sono peculiari, crudeli e prevaricatrici, agiscono in un crescendo parossistico, che viene spesso smorzato da un anticlimax, che si risolve, grazie alle sfaccettature del dialetto napoletano, in umorismo. Proprio quello pirandelliano.

È questo il caso: due donne anziane vivono sotto lo stesso tetto, legate da affinità parentali (sono consuocere): ma la loro estrazione sociale e i loro interessi sono molto diversi. Cibele è sofisticata e colta e si compiace della sua erudizione, mentre Serena è una casalinga semplice e apparentemente fragile, che sa però reagire con violenza sia verbale che psicologica agli attacchi della coinquilina. Il rapporto tra loro è fortemente conflittuale, esasperato dalla convivenza coatta, ma nonostante ciò costituisce l’unico modo che esse hanno per relazionarsi con qualcun altro al di là di se stesse, considerato che i figli telefonano sporadicamente e che gli unici contatti con il mondo esterno sono le visite di un giovane e inesperto medico.

Cibele e Serena sono sole, disperatamente sole. E in questa solitudine si alimenta una sorta di follia incrementata dall’incapacità di agire. La sopravvivenza di entrambe si nutre esclusivamente della relazione patologica, e talvolta violenta, che esiste tra loro. Vivono, o meglio riescono a vivere soltanto grazie a essa.

Le battute di Serena, in colorito dialetto napoletano nel testo originale, sono state tradotte in triestino con l’intenzione di rendere la medesima efficacia e immediatezza della parlata popolare.

Lo spettacolo però non decolla. Mariella Terragni non convince nel ruolo di Cibele, che interpreta, seppur con grande professionalità, in modo eccessivamente accademico. Ariella Reggio propone per Serena – com’è nelle sue corde – una recitazione realistica e accattivante, e delinea un personaggio umile e di semplici ma autentici, per quanto gretti, sentimenti: è – come sempre – straordinaria. Ma il rapporto tra le due interpreti non riesce a trovare il ritmo, la complicità e la sincerità per arrivare in platea in modo convincente, stenta a trovare la strada per giungere al cuore del pubblico. Che nonostante ciò, applaude.

La trasposizione del testo dal napoletano al dialetto triestino è di Ariella Reggio e Mario Mirasola; quest’ultimo ha anche curato la regia della messinscena. Cibele è Mariella Terragni, Serena è Ariella Reggio, il giovane “quasi” medico è Francesco Paolo Ferrara.