La poesia di Mario Benedetti

| | |

di Gianni Cimador

 

Mario Benedetti, una delle voci più significative della poesia italiana contemporanea, è mancato il 27 marzo 2020 per delle complicazioni legate al Covid-19.

Si tratta di una fine in qualche modo coerente con la tensione a stabilire un contatto diretto con il mondo, che ha sempre animato la sua scrittura e che, paradossalmente, si è dovuta confrontare con la distanza imposta dalla malattia: il suo stato di salute era già precario dal 2004 per la sclerosi multipla ed era stato ulteriormente compromesso nel 2014 da un infarto che lo aveva costretto a vivere in un istituto di cura di Milano, in un limbo che lo allontanava da quella realtà che egli tanto amava. Questo distanziamento coatto gli ha dato tuttavia una penetrante lucidità di sguardo, che rende la sua poesia inconfondibile.

Nato nel 1955 da madre slovena e originario di Attimis, vicino a Cividale, Benedetti si trasferisce a Padova nel 1976 per studiare Lettere e nella città veneta ha inizio il suo impegno culturale, nel clima teso degli Anni di piombo: dopo essersi laureato con una tesi su Michelstaedter, inizia a insegnare nelle Scuole Superiori e fonda con Stefano Dal Bianco e Fernando Marchiori la rivista Scarto minimo (1986-1989), attenta alla poesia di ricerca. Continua a collaborare con Dal Bianco anche quando, nel 1994, si trasferisce a Milano che diventa, con il Friuli, l’altro polo fondamentale della sua vita.

Nell’introduzione al volume Tutte le poesie (Garzanti, Milano, 2017, a cura di Antonio Riccardi), Dal Bianco scrive che «Stare vicini a Mario era sentire una energia che veniva da chissà dove, fredda e compressa e mista di intransigenza, di autentica cattiveria e totale apertura a qualunque possibilità di vita, a qualunque possibilità di pensiero, a qualunque tenerezza e in sostanza del tutto indifesa nel suo puntare all’eccesso di sé. Capivi subito che bastava grattare la superficie di quella corazza per trovare un mare di sofferenza vissuta, niente di coltivato a forza, niente di auto-commiserante».

A partire dall’esordio di Moriremo guardati (Forum/Quinta generazione, Forlì 1982) e fino a Umana gloria, che nel 2004 raccoglie la produzione precedente, escono molte plaquette: Il cielo per sempre (Schema Poesia, Milano, 1989), I Secoli della primavera (Sestante, Ascoli Piceno, 1992), Una terra che non sembra vera (Campanotto, Udine, 1997), Il parco di Triglav (Stampa, Varese, 1999), Borgo con locanda (Circolo Culturale di Meduno, Pordenone, 2000).

L’impronta dei luoghi d’origine è stata rilevante nella poesia di Benedetti che proviene da una frontiera, quella tra il Friuli e la Slovenia, di cui non si poteva parlare facilmente: le violenze della seconda guerra mondiale e le lotte tra i gruppi partigiani avevano lasciato tracce e sofferenze indelebili nella memoria collettiva, anche se quel confine rappresenta per lui prima di tutto un mondo favoloso, pieno di torrenti, boschi, prati, circondato dalle montagne, con tanti piccoli borghi umili, dove convivevano italiani e sloveni. Da quel mondo si allontana dopo il terremoto, anche perché vuole liberarsi dalla cappa opprimente creata dalle tensioni sul confine orientale.

Segnala il suo legame con una dimensione arcaica e le perplessità nei confronti dei processi di modernizzazione anche l’interesse verso la poesia neodialettale e verso il vissuto di piccole comunità marginali, refrattarie rispetto ai flussi della comunicazione: l’attenzione per la dimensione antropologica («Le parole sono nelle storie che mi hai fatto vedere») lo porta a trasferire i minimi dettagli della vita quotidiana in una dimensione lirica e straniata, sottraendoli al tempo e trasferendoli in un eterno presente («Ci si sporge all’esterno della vita nella sua paralisi,/si vede vivere quelli che sono diventati una cosa,/tante cose animate, un testardo sentire/obbligato./Finalmente presente è la parola, anche questo dire»).

In questo senso egli ritorna, sin dalle prime raccolte, continuamente all’infanzia, alla ricerca di una coralità perduta, evitando tuttavia di cadere in celebrazioni nostalgiche o in un esistenzialismo sentimentale e intimista («Come testimoniare i morti, /vivere come lo fossimo,/morire come lo siamo. Per la vita/ è la scoperta/della morte e della vita»).

Se, da un lato, il punto di vista eccentrico di Benedetti, attratto dalla verità delle cose e dalla loro fragilità, lo avvicina a Carlo Porta, dall’altro una lingua poetica rarefatta, a loro estranea, che vuole sottrarsi alla distruzione del tempo e alla dispersione dell’io poetico, richiama l’orfismo di Milo De Angelis: come osserva Gian Mario Villalta, il poeta si assume il compito di «officiare la salvezza della memoria e insieme esibirne la troppo facile distruzione, lungo i confini di un’ossessiva indagine sul rapporto tra la percezione, il suo organizzarsi in senso, e i residui di significato, la resistenza dell’identità nei segni dell’espressione». Ne deriva uno «spazio curvo, formato da prospettive diverse il cui comune punto di fuga è sempre l’istante inafferrabile, la miracolosa coincidenza del sentire e della realtà, che rievoca ciò che vede, che vede rievocando»: nella scrittura poetica convergono così le istanze universali ed eterne dell’esistenza e quelle particolari, antropologicamente determinate, della storia («è successo un tempo / ma è come fosse adesso / perché anche adesso è un tempo»), anche se il rapporto tra tempo e parola è sempre incerto, irrisolto, non viene mai completamente meno il senso di precarietà e di smarrimento, non c’è la redenzione in un tempo assoluto («E ogni vita / era questo: interezze create continuamente / per un dopo che non ci sarà più o è già stato»).

In Umana gloria (Mondadori, Milano, 2004) la consapevolezza della “fievole istoria”, ovvero della fragilità della memoria e dell’identità, minacciata costantemente dalla disgregazione prodotta dal male e dalla sofferenza, si accompagna a un’intransigenza morale che non accetta le debolezze umane, la distrazione di sé, la leggerezza dell’oblio («Non distrarti, non eludere / la pura inconcepibile assenza, non distrarti»): su questa postura ha avuto probabilmente una decisiva influenza, a livello inconscio, il terremoto del 1976, che ha creato una cesura rispetto al mondo dell’infanzia, ormai irraggiungibile, e nello stesso tempo ha stimolato la necessità di recuperarlo attraverso la parola poetica («Dalla nuvola si schiariva una figura, / da vicino io ridevo nella sua bocca. / Strade e visi uno dentro l’altro, / e era tutta la mia vita»).

Per Benedetti, come per Paul Celan, ogni atto di scrittura è un atto di verità, di cui bisogna prendersi la responsabilità: è possibile così raggiungere quell’ “altro del mondo” che è il luogo della verità, quel “fuori” dell’umano, dove la vita assume un senso, pur presentandosi nella sua irriducibile enigmaticità («Un viso, una corsa / sono stati amati per sempre, per sempre. / Ti guardo dalla sabbia che sembra non finire / nemmeno lì dove sei»).

Spesso questo luogo ideale, dove le contraddizioni fra la scrittura e la vita possono essere superate, è identificato con il cielo, con uno spazio nascosto, inconoscibile, vuoto di significati («I tuoi occhi non vogliono dire, / sono celesti»): perciò il linguaggio di Benedetti è scarno, essenziale, evita ogni forma di introspezione psicologica e rimanda alla pittura, alla sua aderenza fenomenologica alle cose («Una cosa vera che stava con noi nella vita sono/adesso/ i piccoli orti sulla strada, la materia povera/di un quadretto di Beuys tra le linee nodose di/Mondrian»).

Anche i lacerti di friulano e sloveno, che troviamo in alcune poesie, evocano un mondo altro, straniero, una unità mitica di infanzia e storia, oltre i confini della parola e della memoria («Vedere nuda la vita / mentre si parla una lingua per dire qualcosa»): è un mondo poetico nel quale si intrecciano luoghi e tempi diversi, lontani, che lascia sempre nel lettore una sensazione di irrealtà, pur nella sua scarna essenzialità («Le parole non sono per chi non c’è più. / Si commuovono e possono dire il viso morto. / Gli occhi erano quelli che mostrava, / il viso sepolto quello visto altre volte»).

La densa autoriflessività della poesia di Benedetti («Servirebbe guardare da lontano, pensare che si guarda»), la tenace ricerca sulla consistenza della propria identità, sul “come uno ha sé nella mente”, si traducono, dal punto di vista stilistico, in una sintassi fortemente ellittica, carente di nessi connettivi, ostile a ogni immediatezza comunicativa ed espressiva: è una sintassi che ci spinge a cercare la verità della vita vissuta nei buchi neri della lingua («Il vuoto si rigira qui e fa ombre / esili quanto esile è la pagina»), nella resistenza opposta dalle immagini a ogni tentativo di interpretazione, e nello stesso tempo documenta quanto sia difficile per il poeta uscire dai limiti della propria soggettività e raggiungere una visione oggettiva («E pensi / all’altra vita dei sassi, del cemento. / Ma non sono io, / è un’altra vita che ti porta alle lacrime e ai colori»).

Come osserva Umberto Fiori, «Lo sguardo di Benedetti non si distoglie mai del tutto da quello che chiamiamo realtà, ma è come se mettesse in opera uno strabismo appena percettibile, un clinamen che piega e distorce le cose più familiari e ovvie. […] tutto bene o male si capisce; ma è come se a parlare fosse qualcuno che deve riprendere confidenza con la lingua, con il rapporto tra parole e cose, e si muove incerto, pieno di dubbi e di stupore».

In Pitture nere su carta (Mondadori, Milano, 2008) l’ “andamento programmaticamente esitante” di Benedetti, pieno di nessi analogici e passaggi arbitrari, diventa ancora più ellittico e sincopato, sacrificando verbi e aggettivi, fino ad approdare a una «scrittura di sostantivi ossea, che nei suoi aspetti più radicali potrebbe essere il portato di qualche disordine neurologico»: la perdita di senso che il poeta registra e l’incapacità di ricomporre attraverso la memoria un’identità lacerata in tanti frammenti sparsi assumono un’intonazione tragica, accentuata dall’atteggiamento dimesso, privo di enfasi, del poeta che si sente sempre più solo, ma non cerca spiegazioni o consolazioni metafisiche («Ho freddo, ma come se non fossi io»).

In Materiali di un’identità (Transeuropa, Massa, 2010), Benedetti ritorna sul tema dell’identità, sempre strettamente connesso a quello della precarietà della memoria e dell’esistenza, e lo legge attraverso gli autori e i filosofi che sente più vicini: come lui, Paul Celan, Rainer Maria Rilke, Yves Bonnefoy, Cesare Pavese, Carlo Michelstaedter, Martin Heidegger e Georges Bataille sono interessati a vedere e rappresentare l’uomo nella sua verità più elementare, nel “brivido di stare”.

Anche nell’ultima raccolta che Benedetti ha pubblicato, Tersa morte (Mondadori, Milano, 2013), il legame fortissimo tra poesia e biografia emerge dalla totale corrispondenza tra sé e il proprio sguardo e tra lo sguardo e le cose («Si resta a guardare, / le parole scorrono insieme alle dita»), minacciata dalla “paura di non poter vedere” che serpeggia sempre nelle sue poesie, come dimostra la frequenza quasi ossessiva di termini legati al senso della vista («Io che sono delle cose negli occhi, / ma non so dire come sono quando le guardo»): Benedetti richiama la pittura di Morandi che si concentra a tal punto sugli oggetti da smaterializzarli e da smarrire in essi la sua identità, avvertendone l’irresistibile attrazione («Questo guardare le mani / rigirandole / o lo sguardo per andare / tra le tante voci»).

Pur con una sintassi più fluida, l’obiettivo del poeta è sempre quello di raggiungere, trascendendo la realtà e il mondo del vissuto, uno sguardo puro, assoluto, staccato dal corpo e dalla mente («E le mie parole dopo le mie, / la terra tutta, rotonda, intera / da lontano come il mio corpo»): è lo sguardo del sosia, di colui che non c’è più e ci guarda e non dice nulla, un’immagine che ritorna spesso nelle ultime raccolte e che indica ancora una volta la volontà di liberarsi dal peso della propria soggettività per osservarsi da un punto di vista esterno, extrastorico («Si diventa altri occhi/per morire dovunque / Ci si dimentica di sé / e il sosia ripete le onde del mare»).

Questo lavoro continuo e tenace di purificazione dello sguardo, in un’epoca satura di immagini e di messaggi inconsistenti, è l’eredità più significativa che la poesia di Mario Benedetti ci lascia, insieme alla consapevolezza che «Quel nulla che noi non saremo / porta con sé e cancella tutto«.