Piero Marussig a villa Sartorio

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Per Elena Pontiggia il pittore triestino è «il più viennese degli artisti francesi e il più francese degli austriaci»

di Fulvio Senardi

 

Apre larghe prospettive sull’arte triestina la bella mostra che il Museo Sartorio (ingresso gratuito, aperta da giovedì a domenica) dedica a Pietro Marussig, per la cura di Alessandra Tiddia e Lorenza Resciniti, con allestimento di Federica Luser (Piero Marussig. Camera con vista su Trieste). Ventidue tele, alcune provenienti dal vicino Museo Revoltella, altre da collezioni private, che alcune tabelle esplicative in italiano e in inglese permettono di collocare nella loro giusta dimensione storico-critica, documentano un percorso artistico coerente, nutrito di stimoli centro-europei, francesi, italiani: una ricchezza di spunti e di «tensioni però sussultanti, riassorbite in nuove armonie» (Elena Pontiggia ). Confrontarsi con chi è stato «il più viennese degli artisti francesi e il più francese degli austriaci», secondo una definizione che si deva ancora a Pontiggia, tra le maggiori studiose del pittore triestino, permette di individuare un aspetto – quello di radice artistico-figurativa – della koinè mittel-europea di Trieste imperiale. Un’araba fenice – non tanto misteriosa da non avere precisi riscontri in settori artistici diversi da quello letterario – le cui testimonianze gli studiosi hanno generalmente cercato di riconoscere, con una certa fatica, nella scrittura narrativa o poetica degli autori giuliani (non ultimo il fantasioso Pappalardo: Modernism in Triest), laddove invece il presupposto classicistico che orienta la letteratura della «fedele di Roma» (così Carducci su Trieste) filtra, orienta e seleziona con esclusivismo irriducibile.

Nato a Trieste nel 1879 in una famiglia di buoni mezzi, Marussig studia alla Scuola industriale (Triest K.K. Staatsgewerbeschule) di corsia Stadion (via Battisti) avendo come insegnante Eugenio Scomparini, figura di primo piano della pittura triestina. Quindi,  come molti artisti concittadini, viaggi di studio a Vienna e a Monaco (città dove, in anni seguenti, venne frequentemente invitato ad esporre) e, successivamente, un lungo soggiorno a Parigi che gli lascia il tempo per una formativa puntata a Roma (1903) per visite puntigliose di mostre e musei. Di ritorno a Trieste Marussig approfondisce il rapporto con i Grandi della pittura italiana, in particolare Tiziano che resterà per lui un punto di riferimento fondamentale. Ispirandosi a Van Gogh, Gauguin, Seurat, Klimt, Schiele, più tardi a Cezanne (più tardi ancora a Matisse) e sempre in dialettica con la tradizione italiana, egli elabora una poetica post-impressionista che fa perno su temi e suggestioni di carattere intimistico, sullo sfondo di uno spiccato amore d’artista per la natura. Come se, convinto che quanto piace al mondo è breve sogno, avesse deciso di chiudersi nel breve orizzonte del microcosmo triestino della sua lussureggiante villa di Chiadino, dove gli è accanto la moglie Katarina Drenik, e da cui trae spunti prima etici che figurativi.

Stupefacente documento di questa sensibilità è Concertino nel parco, presentato alla mostra triestina. Tre personaggi nella quiete di un angolo di bosco, dominato da una quercia autunnale. Due figure intente a suonare degli strumenti a corda: l’una, un uomo, raffigurato di schiena, la donna invece frontalmente, mentre un terzo personaggio femminile è accoccolato tra i rami e appare rapito nell’ascolto. Una scena tra Tiziano e Watteau (nel cui Concert Champetre di Madrid un suonatore ha curiose rassomiglianze con il personaggio ritratto da Marussig) dipinta a Trieste nel 1916, mentre la città, grigia ed intristita, si era trasformata in retrovia della Grande Guerra e vi si udiva con agghiacciante nettezza il tambureggiare degli obici che crivellavano la “fortezza Hermada”. Un controcanto pacifico, se non lezioso, a ciò che intanto squadernava la grande Storia. Figura di contrasto troppo marcata per essere casuale. Considerando tutto ciò, la notizia di un periodo di internamento durante la Grande Guerra, il destino dei più noti irredentisti, riportata da alcuni biografi, potrebbe apparire il semplice tentativo di rinverginare politicamente, negli anni del fascismo, chi forse vedeva nella politica l’ultimo dei suoi interessi. Segue, a cavallo della guerra, un periodo che, per il nuovo uso del colore, è stato definito espressionista («in accezione lirica e non deformatrice», E. Pontiggia).

Negli anni Venti la grande svolta: Marussig, ormai “milanese”, si avvicina alla poetica “novecentista” la cui musa e banditrice era Margherita Sarfatti che invocava il recupero della tradizione italiana dopo la stagione delle Avanguardie. Un ritorno all’ordine che sfiora, in certe soluzioni, esiti di neo-classicismo. Paesaggi, nature morte, ritratti (interessi ampiamente documentati dalle opere esposte a Trieste) sono i temi prediletti di questa e dell’ultima fase della vita di Marussig (muore a Pavia nel 1937), quando ormai il novecentismo è ampiamente superato, anche per gli attacchi del fascismo più oltranzista, Farinacci in particolare, che lo indiziavano di intellettualismo, esterofilia, modernismo.

Di lui Carrà scrisse che era un «solitario […] nato per il sogno». E sfumato di sogno è l’apparente realismo della sua poetica, dove non è mai un occhio “fotografico” a trionfare, ma una quasi impercettibile capacità di visione (si potrebbe dire, con un lessico caro a Giotti, non il «véder» ma il «vardar», ovvero il saper cogliere e interpretare la nascosta essenza delle cose), che sottomette la realtà ad una intenzionalità estetica ed emozionale. Si veda lo splendido nudo del 1917 (Donna che dorme, ancora in anni di guerra): un equilibratissimo gioco di contrasti tra colori caldi e freddi, con l’anca della fanciulla che, sottoposta a irrealistica torsione, insinua la sua tiepida nota tra gli azzurri di un lenzuolo che copre o rivela con capriccioso volteggio. Assai più invenzione e teatralità che semplice realismo.

Concludo con un paio di appunti in margine a questa bella mostra che consigliamo di non perdere. Innanzitutto chiedersi se chi giunge a Trieste portatovi dal caso o dalle bianche navi-pollaio del crocerismo internazionale non preferirebbe l’approfondimento della realtà storica e culturale della città che visita (quale consente per esempio Piero Marussig. Camera con vista su Trieste) piuttosto che ciò che viene ammannito sul piatto d’argento del Salone degli Incanti: Frida Kahlo stavolta, mostra “immersiva” con tanto di copie di quadri, ninnoli irrilevanti (i francobolli dedicategli), bric-a-brac; domani chissà (non ha limiti la fervida inventiva di chi da noi amministra la cultura). Punto secondo, a proposito del Museo Sartorio, un importante polo museale della città: oltre alla visita ad un’esemplare dimora patrizia del secondo Ottocento (e alla mostra di cui si è scritto), offre tre scrigni preziosi. La saletta con i disegni del Tiepolo, la stanza che accoglie il trittico di Santa Chiara, i capolavori delle chiese e musei dalla costa occidentale dell’Istria, trasferiti oltre Isonzo nel 1940. Nel giorno della mia visita, un pomeriggio di domenica, due custodi facevano del loro meglio per tenere l’intero museo sotto controllo. Tiepolo, Santa Chiara, le salette istriane erano alla mercé di qualsiasi malintenzionato. Nulla faceva pensare a possibili incursioni degli attivisti per il clima, ma chi può mai dire? A volerle chiudere, aggiungo, non sarebbe stato possibile. La serratura delle salette “istriane” è danneggiata e inutilizzabile. Scarsità di fondi o semplice disattenzione? (27 luglio, «Il Piccolo»: Dalla tassa di soggiorno tre milioni per infrastrutture, mostre e concerti di richiamo).

 

Pietro Marussig

Concertino nel parco

olio su tela, 1916