Dante in inglese

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… ma anche Joyce in italiano

Leggere i classici al tempo del coronavirus

di Sabrina Di Monte

 

Nel centro di Dublino c’è Sweny’s Pharmacy, la storica farmacia che aprì i battenti nel 1853 quando Frederick William Sweny la inaugurò laddove precedentemente si trovava un ambulatorio medico. Da allora poco è cambiato: i mobili vittoriani in legno e molti degli oggetti esposti sono originali e vi si può respirare la stessa atmosfera di quando era frequentata da un giovane James Joyce che in seguito vi ambientò uno degli episodi del suo capolavoro, Ulysses.

E nell’Ulisse leggiamo che il 16 giugno del 1904 Leopold Bloom entra nella farmacia Sweny, si porta alle narici una saponetta, e sente che sa di limone:

 

«– Prendo questa, disse. In totale fa tre e un penny.
– Sì, disse il farmacista. Può pagare tutto insieme al suo ritorno.
– Bene, disse Mr Bloom.
Uscì tranquillamente fuori dal negozio, il giornale a manganello sotto l’ascella e la
saponetta fresca incartata nella mano sinistra».

(Traduzione di E.Terrinoni, New Compton Ed. 2012, p.109).

 

Dal 2009, Sweny’s Pharmacy non è più una farmacia, ma un centro joyciano, dove si possono acquistare libri, lozioni all’acqua di arancia, l’immancabile saponetta al limone e altri memorabilia. È gestita da volontari, primo fra tutti il mitico PJ, un signore con i capelli candidi sempre sorridente che, indossando il camice da farmacista, accoglie gli ospiti da tutto il mondo e li intrattiene, anche cantando in gaelico. O meglio: questo era quello che succedeva prima della pandemia: quando, chiusa la porta del ‘negozio’, volontari e visitatori iniziavano la lettura comune di uno dei libri di Joyce, circondati dai mobili originali, dalle ricette e prodotti della vecchia farmacia, da centinaia di libri antichi e non, inebriati dal profumo delle saponette al limone.

Con l’inizio del lockdown, durante la primavera 2020, le letture si sono spostate online su Zoom. Quando mi fu proposto da un’amica di Trieste, Ilaria, che conosce e frequenta Sweny’s da anni, di leggere con loro, l’unico mio timore era legato all’aspetto informatico: non sapevo cosa fosse Zoom. Ero intimorita, ma anche decisa a superare l’ostacolo.

A scuola leggere ad alta voce mi era sempre piaciuto, la Divina Commedia, I Promessi Sposi, Le Operette Morali. Da adulta, non avevo mai letto in gruppo. Ho presto scoperto che le implicazioni relazionali di un Book Club sono molto interessanti, e fanno da sprone per non gettare la spugna neanche davanti alle letture più ostiche.

Un libro come l’Ulisse di Joyce, ad esempio, non credo sarei mai riuscita a leggerlo tutto da sola; continuavo ad affrontarlo ed abbandonarlo. È pur vero che sono in molti a sostenere che l’Ulisse si può leggere saltando qua e là, ritornando agli episodi che ci sono piaciuti, abbandonando quelli che ci spazientiscono, per poi rivisitarli in un altro momento. Però è chiaro che la meta ambita è la sua lettura integrale, per poi scoprire che leggere l’Ulisse una sola volta non basterà e non sarà altro che l’inizio di una lunga avventura. Invece l’appuntamento bisettimanale con Sweny’s mi ha permesso di leggerlo finalmente sia in italiano che in originale per intero.

Alle letture in italiano e in inglese (da Sweny’s c’è anche la possibilità di leggere in portoghese) partecipano lettori da tutto il mondo: Irlanda, Italia, Spagna, Canada, Stati Uniti, Germania, Israele, Brasile…

Qualche mese fa, Bill Kennedy, un amico lettore di Cleveland nell’Ohio, fece una proposta di lettura che non ci aspettavamo: «Perché non leggiamo Dante? In fondo Joyce lo amava molto».

«Dante?», rispondemmo increduli noi lettori italiani; «Ma no, Dante è difficile anche per noi. È italiano trecentesco, ci vuole la parafrasi, le note di un’edizione critica aggiornata. E poi, parliamoci chiaro: Dante è sacro!».

Davanti alle nostre reticenze e titubanze di italiani allevati a pane, Dante e Promessi Sposi, gli amici lettori anglofoni protestarono: «ma abbiamo letto l’Ulisse di Joyce, il Finnegan’s Wake, certamente potremo anche leggere la Divina Commedia». «Tutta? Anche Purgatorio e Paradiso?» «Yes, why not?», «Why not?? But it’s very difficult!» «It’s not very difficult», obbiettò Bill, i capelli raccolti in una coda e una bella barba grigia da profeta, che durante la stagione calda legge all’aperto, circondato da alti alberi dalle verdi chiome fruscianti; e che quando fa più fresco si sposta all’interno, contornato da scaffali pieni di libri.

Per corroborare la sua tesi, cominciò a leggere in italiano, con un bell’accento americano: «Nel mezzou del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, che la diritta via era smarrita… See, it’s not difficult!». Abbozzammo un sorriso di circostanza, ma la sua lettura non aveva fugato i nostri dubbi, semmai li aveva rafforzati. Non ce la sentivamo di dire «la lettura della Divina Commedia in italiano lasciatela a noi, voi leggetela in inglese». In fondo avrebbero potuto obiettare che anche loro dovevano sorbirsi la nostra lettura non sempre perfetta del loro Joyce. Eh sì, ma Dante… è Dante!

Alla fine, con Massimiliano Bianchi, uno dei volontari che a Dublino aiutano a gestire Sweny’s, un giovane scienziato italiano con la passione della letteratura e della poesia che si divide tra lo studio e l’applicazione delle neuroscienze e varie attività culturali, decidemmo di cedere. Bill non mollava, si trattava di trovare un compromesso. Decidemmo che in fondo l’Inferno potevamo affrontarlo per intero, uno o due canti alla volta. «Poi si vedrà». Per quanto riguardava la scelta di leggere in italiano, inglese o tutte e due, avremmo lasciato l’opzione libera, e incrociato le dita. Massimiliano dall’Irlanda e Bill dall’Ohio avrebbero fatto da host, e cioè avrebbero introdotto di volta in volta i canti con una breve sinossi. Di fare una parafrasi in modo analitico non se ne parlava neanche, era ovvio, ma si sarebbero nominati gli elementi costitutivi del canto, poi si sarebbe passati alla lettura: prima in italiano e poi in inglese. Alla fine, come sempre, discussione aperta a tutto il gruppo.

Si pose poi il problema di che edizione usare. Spiegammo che per noi italiani il problema non si poneva: le edizioni in circolazione sono quasi tutte basate sull’edizione critica di Giorgio Petrocchi (La Commedia secondo l’antica vulgata, Milano 1966-67), ma loro quale edizione avrebbero usato? La traduzione di Longfellow, disse Bill, perché è più vicina all’italiano di Dante. Henry W. Longfellow fu un letterato statunitense, tra i primi traduttori nel mondo anglosassone di opere italiane. Nel 1862, diede vita al Circolo Dante per promuovere la diffusione della Divina Commedia, di cui curò la prima traduzione negli Stati Uniti, nel 1867.

Inizialmente, mi parve ci fosse un grande malinteso: le edizioni che hanno più probabilità di essere vicine al manoscritto, mai trovato, di Dante, sono proprio quelle più vicine a noi perché tengono conto del lavoro di ‘ricostruzione’ testuale e filologica, e il testo di Longellow precedeva anche l’edizione di Giuseppe Vandelli (1921), che ebbe la regale responsabilità di indagare, verso per verso, la genesi di tutte le lezioni vulgate.

Nulla ci è giunto infatti di mano di Dante: non una nota, neppure una firma. Nell’attesa messianica di un eventuale ritrovamento dell’autografo dantesco, che renderebbe milionari i fortunati, basti ricordare che, per quanto concerne la sola Commedia di Dante, tra l’intentio auctoris (la primitiva forma del testo) e il testo che leggiamo oggi (ed. Petrocchi) si interpongono più di ottocento manoscritti, numero che sembra destinato a salire grazie al progetto di recensio dei manoscritti esistenti allestito e diretto da Mario Trovato.

Poi però, capii quello che volesse dire Bill: il registro delle traduzioni in inglese (circa quaranta) varia molto, così come il loro valore poetico: qui Longfellow poteva essere il migliore. In ogni caso, ogni traduzione, per quanto perda inevitabilmente in bellezza, ha il ‘vantaggio’ di essere spesso più ‘chiara’ dell’originale in italiano, essendo svolta in un inglese molto più moderno, a volte modernissimo. Ad esempio: il primo verso dei X canto dell’Inferno dice: «Ora sen va per un secreto calle»; in Longfellow e altri il per noi non più intuitivo secreto (che qui vuol dire stretto) diventa il facile narrow

Alla fine, i lettori anglofoni decisero di utilizzare ciascuno una traduzione diversa. La scelta dipendeva dal gusto, o dal desiderio di avere una traduzione basata sul testo del Petrocchi, oppure semplicemente dalla comodità di averla già in casa a portata di mano. Il risultato si è rivelato interessante e multiforme.

Durante le letture, le traduzioni più usate sono quelle di H. Longfellow (Stati Uniti, 1867), Laurence Binyon, in terza rima (Inghilterra, 1933), John Ciardi, parzialmente in terza rima (Stati Uniti,1954) e Allen Mandelbaum, in versi sciolti (Stati Uniti,1980). Per dare un’idea di quanto possano differire tra loro, vediamo come è stato tradotto il famoso incipit dell’Inferno: «Nel mezzo del cammin di nostra vita», che diventa:

 

Midway upon the journey of our life (Henry W. Longfellow)

Midway in our life’s journey, (Joan Ciardi)

Midway life’s journey (Laurence Binyon)

When I had journeyed half of our life’s way, (Allen Mandelbaum)

 

Da questi esempi pare che la scelta dei lettori di Sweny’s sia stata buona, perché, girovagando fra diverse traduzioni in inglese, troviamo anche risultati meno felici, in cui il registro sembra allontanarsi troppo dal linguaggio dantesco. Come nella traduzione di Steve Ellis (1994), che rende «cammin di nostra vita» con «our trek in life», dove trek suona davvero troppo moderno: «Halfway through our trek in life».

Ed eccoci a mercoledì 10 febbraio 2021, la data decisa per l’inizio delle letture, virtualmente tutti a Sweny’s. Inizialmente, dopo la presentazione in inglese del canto, noi italiani ci alternavamo nella lettura di alcune terzine, intercalate dalla lettura delle stesse in inglese. Questa modalità risultò però da subito poco fluida, e furono proprio i lettori in lingua inglese a chiederci di leggere prima tutto il canto in italiano. Noi temevamo di annoiarli: ascoltare un intero canto in italiano trecentesco sarebbe potuto risultare pesante. Assolutamente no, replicarono: «It’s lovely». Questo è il miracolo che fa la parola di Dante e il ritmo e la musicalità delle sue terzine a rima alternata.

Così stiamo continuando: ci riuniamo ogni mercoledì, su Zoom, alle 20 italiane, contemporaneamente in diretta Facebook. Sempre introdotti dagli host, leggiamo a ogni incontro due canti, commentati alla fine da tutti. Ci lasciamo ogni volta con grandi sorrisi e mani sventolanti, che vorrebbero stringersi, e a volte si allungano, in questa come in altre letture di Sweny’s, come a volerci toccare e a unirci.

La lettura ad alta voce di Dante e il commento richiedono una certa preparazione. Nei giorni che precedono la lettura, leggo e rileggo i canti e ascolto le interpretazioni di Vittorio Gassmann e di Vittorio Sermonti: in macchina, in cucina, mentre faccio altro, ricordando cose, apprendendone di nuove. E immagino che gli amici del gruppo di lettura magari stiano facendo qualcosa di simile, nei ritagli di tempo, come me. La cosa più bella rimane la condivisione, quei thank you detti alla fine, i baci lanciati verso l’etere, i sorrisi sinceri di chi ha appena fatto qualcosa di bello insieme, a migliaia di chilometri di distanza, malgrado l’epidemia, in ragione dell’epidemia. «I’m honoured to be here», ha detto AJ, una giovane amica in collegamento dagli Stati Uniti, alla fine del nostro primo incontro, congiungendo le mani davanti a sé e chinando un poco il capo. Yes, we are all honoured to be here.