Addio a Cecilia Mangini

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Una vita tra fotografia e cinema
di Michele De Luca

Ci ha lasciato, a 93 anni, Cecilia Mangini. La “fotografa del sud”, considerata la prima documentarista donna in Italia, è scomparsa il 21 gennaio a Roma; era nata il 31 luglio del 1927 a Mola di Bari. Le sue fotografie, esposte per la prima volta nel 2017 al Museo delle Tradizioni Popolari di Roma  nella mostra “Visoni e passioni. Fotografie 1952 – 1965”, ci fecero ripercorrere in lungo e in largo l’Italia dal Dopoguerra a metà degli anni Sessanta, ponendo un’attenzione meticolosa su tutti coloro che erano vissuti ai margini, alle donne del sud perennemente in lutto, agli operai, ma anche alle grandi personalità del cinema, della letteratura e dell’arte.

Aveva una visione molto consapevole di quelle che erano le sue diverse forme di lavoro e di ricerca, sia che maneggiasse la cinepresa che la macchina fotografica. «Se mi si chiede – diceva – cosa sono, io rispondo: sono una documentarista. Sono convinta che il documentarista è assai più libero del regista di film di finzione, ed è per questo, per la mia indole libertaria con cui convivo fin da bambina, che ho voluto essere una documentarista. Il documentario è il modo più libero di fare cinema». Per lei, invece, questa era la sua idea e la pratica concreta della fotografia: «Cosa significa essere una fotografa? Significa spogliarsi di tutte quelle che sono le nostre idee preconcette e andare in cerca non della verità, la verità non esiste. È andare in cerca di qualcosa di molto più profondo della verità, qualcosa di assolutamente nascosto […] e la fotografia, come tutto ciò che è un’icona, lo rivela».
Figlia di un pugliese e di una toscana, fin da ragazza, comincia ad interessarsi di fotografia e di cinema, soprattutto grazie alla frequentazione dei CineGUF. Alla fine della guerra, viene mandata in un collegio svizzero per risparmiarle le durezze del dopoguerra e della ricostruzione: qui ha modo di incontrare il cinema di Jean Renoir e resta folgorata dal suo capolavoro, La grande illusione. Tornata a Firenze, riprende la passione per il cinema e inizia a frequentare i neonati cineclub democratici, che in poco tempo le fanno conoscere i migliori film del cinema internazionale, sino ad allora soggetti alla censura fascista, e del nostro neorealismo, da cui viene conquistata.
Trasferitasi venticinquenne a Roma, inizia la non usuale attività di fotografa, allora considerato un mestiere non adatto alle signorine, dal momento che lei aveva scelto non la fotografia di studio, ma quella di strada, perché, come ebbe a dire, «nelle strade l’umanità vive, si dibatte, si diverte, soffre. Tutto questo è a disposizione di chiunque abbia una macchina con un obiettivo». Di qui la collaborazione a riviste come Cinema Nuovo di Guido Aristarco e Cinema 60 di Mino Argentieri, e ad iniziare un’intensa attività fotografica che la porta in giro per l’Italia, con gli occhi puntati sulle condizioni di vita e di lavoro in un paese stremato. Oltre a intraprendere una frenetica attività documentaristica nel cinema, che qui è impossibile ripercorrere, seguendo la sua vera “vocazione”.
Momenti per lei fondamentali, sono stati prima la collaborazione (fortuita e spontanea, come viene raccontato) con Pier Paolo Pasolini, con la sua attenzione verso il mondo delle periferie cittadine. Nel 1958 debutta con il cortometraggio a colori Ignoti alla città, ispirato al romanzo Ragazzi di vita con il quale Pasolini, appena tre anni prima, aveva dipinto con tratti lirici ma disincantati la quotidianità, anche dura e violenta, degli adolescenti di borgata: un sottoproletariato urbano a cavallo tra espedienti e sogno (un paio di scarpe nuove), calci al pallone e piccoli furti, all’ombra di un boom economico da cui sono ancora emarginati. Nonostante il rifiuto della mostra del Cinema di Venezia di inserire la pellicola tra i film in concorso e l’immediata bocciatura da parte della censura, che si risolve parzialmente solo grazie a una movimentata battaglia parlamentare. Nel 1962 il rapporto con le tematiche care a Paolini ha un seguito ne La canta delle Marane, considerato tra i migliori documentari del cinema italiano: una trama semplice, una telecamera che riprende con lunghi piani sequenza l’estate di una banda di ragazzini smilzi e già un po’ “bulli” alla periferia della Capitale, la loro monotona quotidianità, in un alone di una “innocenza” ancora non tentata dalla modernità.
Nei primissimi anni ’60, sulla scia delle inchieste dell’antropologo Ernesto De Martino, il suo obiettivo si sposta nel profondo sud del nostro paese, nella sua terra di origine, allora ancora sconosciuta, a «quel mondo chiuso – come ha scritto Carlo Levi nel suo Cristo si è fermato a Eboli – serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente». Qui il suo sguardo si concentra sul Mezzogiorno, con un ritorno alle radici perdute della sua infanzia pugliese (la sua personale “terra del rimorso?”): nasce, nel 1960, il suo documentario Maria e i giorni. Le immagini del documentario restituiscono il lento incedere quotidiano di un interno familiare contadino: gli spazi, gli oggetti, le abitudini, ma anche le pratiche religiose, il “colloquio coi santi” e con lo “spirito gaguro” che si diverte a fare impazzire gli animali.
In quegli anni va anche ricordato che le attenzioni di Cecilia Mangini si rivolgono, inoltre, alle difficoltà economiche e alla miseria sociale della città italiana che più di altre sta pagando il prezzo della guerra fredda (O Trieste del mio cuore, 1964), al controverso tema dell’eutanasia (La scelta, 1967), al professionismo nello sport come strumento di emancipazione economica (Pugili a Brugherio, 1969).
Con lei si è chiusa una delle pagine più alte della storia della fotografia, dell’antropologia e della cultura documentaristica italiana e internazionale.