In America non voglio andar

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Un’esule fiumana residente negli USA narra di sé, della sua vita. Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo la prefazione del volume

di Diego Zandel

 

Credo che nel libro In America non voglio andar, sottotitolo Storia di un’esule fiumana di Mirella Zocovich Tainer, uscito nella collana “Letture del mondo” da me diretta per la Oltre Edizioni, molti esuli, e più in generale molti migranti, ritroveranno i sentimenti che questa donna, pressoché novantenne (gli 88 li compirà nell’ottobre di quest’anno), ha espresso con grandissima capacità rievocativa: sentimenti di nostalgia per la città perduta, Fiume, di vuoto per le perdite delle persone care, a cominciare dall’amatissimo marito, con il gusto di ricordare dettagli che danno il senso intero di un’epoca, di un momento, di un rapporto anche con i luoghi, che possono essere una spiaggia, o una casa, o un panorama, o anche una visita al cimitero, di fronte a una tomba particolarmente significativa. Può essere anche, in questa società sempre più virtuale, il rapporto all’interno di un gruppo di Facebook al quale Mirella partecipa così impegnando – da Deerfield Illinois USA, dintorni di Chicago, dove vive dal 1962 – il tempo a comunicare con gli amici lontani, esuli in altre parti del mondo, in Australia come in Italia come a Fiume, quei pochi purtroppo italiani, fiumani “patochi”, come si dice in dialetto per dire di discendenza autoctona, che sono rimasti in città, ma tutti ormai affratellati, senza più quelle distanze che il regime di Tito aveva innalzato, temendo nei profughi chissà quali rigurgiti di irredentismo. Lo scrive Mirella: è come se tutti loro sedessero qui, a chiacchierare, in salotto con me.

Ma Mirella non si accontenta del rapporto virtuale: una, ma ora che è andata in pensione dalla Motorola, anche due volte all’anno, in occasione di San Vito, protettore di Fiume e, quindi, per trascorrere l’estate facendo i bagni nel “nostro” mare, nel “nostro” golfo del Quarnero, prende l’aereo da Chicago e trasvola sulle sacre sponde della sua città. Lo fa da quando era profuga a Torino, dov’era andata con la famiglia, genitori e la sorella Ida nel 1946, e dove hanno vissuto fino al 1962. Qui ha conosciuto un altro esule fiumano, Dusan Tainer, che nel 1954 ha sposato. La cosa straordinaria è che sua sorella Ina ha sposato anche il fratello di Dusan, Danilo.

Sia Dusan che Danilo soprattutto erano amici di mio padre e in particolare di mio zio Nino, fratello di mia madre, tant’è che un giorno in cui mi occupavo del testo di Mirella, mi ero trovato a leggere pure un diario dello stesso mio zio che mia cugina Anci, la figlia, mi ha regalato con l’idea di pubblicarlo – cosa che farò, perché è uno straordinario documento di un uomo allora diciannovenne arrestato da tedeschi e mandato in un campo di concentramento di Müldorf, in Germania, a pochi chilometri da Monaco di Baviera – dove ho trovato i ricordi del proprio matrimonio, avvenuto nel 1954, per poi continuare: «In quello stesso anno (a primavera) si sposò pure Danilo che venne in luna di miele a Fiume. Con loro passammo giornate liete in amicizia. Pure ad aprile venne a Fiume mia sorella Ucci, per la prima volta dalla sua partenza nel 1947 e con lei suo figlio Diego di 6 anni che vedemmo per la prima volta.»

Un incrocio di destini. Quello stesso incrocio che mi ha portato a conoscere per la prima volta Mirella in occasione della festività di San Vito, soltanto nel giugno del 2019, nel corso di una “navigada” per il nostro Quarnero, con visite alle isole di Veglia e di Cherso. In quel giorno potemmo mettere a fuoco i ricordi dei nostri cari che avevano condiviso la gioventù a Fiume, abitando loro, tutti, nel rione di Torretta. Infatti, Mirella, che era di un altro rione ha potuto conoscere mio padre e mio zio solo dopo, grazie a Dusan e a Danilo, i quali, incontrandosi a Fiume, non perdevano l’occasione di ritrovarsi per ricordare la loro “vecia” Fiume. Quella Fiume che non c’è più, e che Mirella, in queste sue pagine così personali, però rievoca con tutto lo struggimento che suscitano le cose bellissime che ci sono state e che non ritorneranno mai più. Uno struggimento che trasmette allo stesso lettore. Mi è capitato, leggendolo, di sentire il luccicore agli occhi.

Ho rivisto poi Mirella pochi mesi dopo quella “navigada” nel Quarnero, in occasione del raduno dei fiumani sul Lago di Garda, il 4 ottobre. Ci eravamo piazzati alla stessa tavola per i due giorni del raduno e lei, prima di alzarsi per andare agli altri tavoli a cantare le canzoni fiumane accompagnati dalla chitarra di Augusto Rippa Marincovich, che le conosce tutte, amava raccontare sia dei tempi passati che della sua vita in America a Deerfield, racconti straordinari, che aprivano squarci su un mondo così lontano e diverso da quello che aveva lasciato, da farmi chiedere come ha fatto a resistere, a sopravvivere laggiù, lontano da tutto e da tutti, con pochi altri fiumani sparsi per l’Illinois, come il cugino che vive a Milwaukee, che tra l’altro sta pure nel confinante Wisconsin sul Lago Michigan. Paragonavo il suo all’esilio dei miei genitori che, finiti prima nelle Marche e poi a Roma, hanno vissuto sempre in Italia, parlando la loro lingua, ma anche in mezzo a una comunità di esuli, quella del campo profughi prima e del Villaggio Giuliano-Dalmata poi, per cui hanno continuato a parlare il loro dialetto senza interruzione.

Così le ho fatto la proposta di mettere per scritto questi ricordi e di farlo con la stessa libertà che usava a tavola, alternando gli argomenti, uno richiamando l’altro, in un moto circolare che dava l’idea di un destino, di una vita.

E, infatti, così è stato, il risultato è un libro imprescindibile per tutti coloro che hanno vissuto l’esilio, la lontananza dalla propria terra, in una terra straniera. Ma lo è anche per tutti coloro che hanno il desiderio o la curiosità o l’interesse di comprendere questa condizione umana così particolare, che appartiene solo chi l’ha vissuta e ne porta le ferite, che nulla né nessuno potrà mai rimarginare. È il “Nostos” greco. Sono gli eredi di Ulisse ciascuno con la propria Itaca nel cuore.

Nel caso di Mirella Zocovich Tainer Fiume, della quale sentirete continuamente evocare il nome, e la “fiumanità” come dato orgogliosamente identitario, come un marchio da esibire, per dire chi siamo veramente.

Da qui i suoi ricordi, che vanno dalla guerra sul confine orientale d’Italia all’occupazione jugoslava con le depredazioni del regime di proprietà private e altre violenze che spingevano qualcuno al suicidio, altri alla fuga, all’esilio, come fu per la sua famiglia, non ricchi capitalisti ma solo, il padre, un fornaio, e poi la partenza da Fiume, lei ragazza sedicenne, l’approdo a Torino, le difficoltà della vita di esuli, capiti poco dalla gente ma confortati dalla solidarietà degli altri esuli che arrivavano, il suo incontro con Dusan e quello di sua sorella Ina con il fratello di lui, Danilo, la decisione di fare il grande passo andandosene in America, chiamati dai genitori di lei che già si erano trasferiti, nella speranza di una vita migliore, il terribile impatto con una lingua e una realtà completamente diversa, e poi la crudezza della nostalgia, lo struggimento che questa accendeva; quindi la decisione di guadagnare quel tanto da pagarsi il viaggio per tornare definitivamente in Italia, a Torino: era una città dalla quale potevano almeno ogni anno permettersi di fare un ritorno a Fiume, da lì, da Chicago no, in quelle condizioni ancora precarie no, non era possibile, tanto che sarebbero trascorsi ben quattro anni prima di potersi muovere dall’Illinois, finché raggiunsero, finalmente, un po’ di benessere. Gli Stati Uniti, per chi lavora e lavora duro, offre questa possibilità, racconta Mirella, e lo fa entrando nei particolari della vita lavorativa, delle regole sindacali che vigono laggiù. E Mirella parla, così, anche della sua America, dei valori che le ha trasmesso, innanzitutto l’amore per la libertà individuale, quanto diversa dall’opprimente collettivizzazione forzata del comunismo, con tutto ciò che comportava in termini di libertà, anche quelle più elementari.

A riguardo, mi è rimasto impresso un racconto che Mirella ha fatto di un amico fiumano, un croato di Sussak, la cittadina che oggi corrisponde a un quartiere di Fiume-Rijeka, posta oltre il fiume Eneo che un tempo segnava il confine tra Italia e il Regno di Jugoslavia.

Anche lui, Duško, come si chiamava, era emigrato negli Stati Uniti, aveva sposato una fiumana, Fedora, era stato partigiano ed era stato ferito, aveva ancora la pallottola dentro il mento, parlava un fiumano con forte accento croato. Abitavano a Chicago e capitava, a Mirella e Dusan, di incontrarsi con loro, di trascorrere un po’ di tempo insieme, parlando naturalmente di Fiume, Duško in realtà di Sussak.

“Era una persona molto fine, ben vestito, elegante e molto preciso nelle sue cose. Aveva la mania della pulizia e la sua automobile ne era testimone. Sempre lucida e con i cromi che ti accecavano. Quando si andava insieme a scorrazzare per le strade dell’Illinois, ci si fermava ogni tanto per pulirla e lucidarla. Parlava sempre di Sussak e parlava del pane che gli faceva la mamma e del forno scavato dentro al muro e che andava a legna nel bosco. Da quel forno usciva questo pane fragrante di un profumo che sentiva solo lui” racconta Mirella.

Ma era inquieto, erano inquieti Duško e Fedora, soffrivano di una nostalgia così forte che a un certo momento decisero di vendere tutte le proprietà per tornare a vivere a Sussak. Duško, così, imbarcò la sua Buick rossa fiammante sul transatlantico e sbarcò a Marsiglia per poi farsi i chilometri che restavano per Fiume in macchina. E a Fiume, a Sussak, arrivarono, ma vivere in un paese comunista era cosa diversa dal vivere negli Stati Uniti, pian piano pentendosi di essersene andato. Ma poteva tornare a fare l’emigrante cominciando tutto da capo? Non aveva più l’età né la voglia, incapace però di affrontare quella disillusione, la più grande della sua vita. Fu così che si suicidò. Ora le sue ceneri riposano nel cimitero di Sussak, a Tersatto, dentro un’urna di acciaio che gli aveva costruito Dusan, il marito di Mirella.

Un addio, un esilio questa volta definitivo, che ricorda i versi che il grande scrittore greco Nikos Kazantzakis ha fatto scrivere sulla propria tomba: “Non spero in nulla, non ho paura di nulla, sono libero”.

Ma spesso, e gli scrittori lo sanno meglio di altri, la vita si sconta scrivendone, raccontandola. E Mirella Zocovich Tainer l’ha fatto, molto bene.