Trieste e una ragazza

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Cent’anni fa nasceva la pittrice e scrittrice Graziana Pentich compagna del poeta Alfonso Gatto

di Gennaro Rega

 

Chi è Graziana Pentich? Molti si potrebbero porre questa domanda, anche a Trieste. Poi magari cliccando su Wikipedia, sentirsi in parte appagati. Ma quest’anno, in cui cade il centenario della nascita, vorrei, per la comune appartenenza a luoghi cari della memoria e della giovinezza come Trieste e il suo Carso, non passasse inosservato il suo anniversario.

Era nata nella città giuliana il 19 dicembre 1920. Figlia del fotografo Carlo Pentich, di origine dalmata, e della pittrice Nerina Inchiostri. Frequentò il regio liceo scientifico “Oberdan” di Trieste, alle falde del colle di San Vito. È lei stessa che si rappresenta in una poesia, «La via che mi portava a scuola inserita nella sua unica raccolta poetica, Una visita agli anni, pubblicata da Mondadori 1968: La via che mi portava a scuola, / sopra il monte, la via ventosa / allora era il mio breve passo / fra gli angeli al mattino, / ancora tinta di violetto l’ora. […]». Nel pieno della Seconda Guerra Mondiale segue e completa brillantemente gli studi di Scienze politiche e sociali presso l’Università della sua città. Sembrava destinata alla carriera universitaria, ma la Trieste dell’immediato Dopoguerra era piagata e piegata su se stessa da un confine, quello della cosiddetta Zona A (correva grosso modo da Muggia a Duino), che la separava dall’Italia e ne affidava la giurisdizione ad un Governo Alleato angloamericano (TLT – Territorio Libero di Trieste).

Sempre nella raccolta mondadoriana già citata (p. 45) è presente una sua breve poesia, Nata ai confini, in cui icasticamente scrive : «Barbara se in cuore è delicata / la mia malinconia, pure mi sento. / La mia terra è consumata dal vento, / dietro quei monti è l’Europa implacata».

Nel 1945 in visita a Venezia per ritemprarsi dopo le fatiche della laurea, incontra il pittore Emilio Vedova che come un novello Tiresia in qualche modo le prefigura un destino: «Leggi Alfonso Gatto”, gridò forte ancora nel salutarmi, sporgendosi dal rugginoso balcone di un suo studio sul Canal Grande» ( p. 15, da Dove saremo un giorno a ricordare, Interlinea 2009, ultimo suo libro pubblicato in vita).

Così come altri giovani triestini, Graziana nel marzo 1946 si trasferisce a Milano, dove nonostante le macerie e le ferite della guerra si respiravano «un’ esaltante ansia di ripresa» e una «fratellanza ritrovata» (p. 108, ibidem).

Nella città lombarda in quello stesso mese casualmente incontra di persona proprio Alfonso Gatto, ad una conferenza su Paul Valéry di cui entrambi erano appassionati lettori. Subito dopo quel primo incontro, fra Graziana e Alfonso si avviò una stretta collaborazione artistica e una appassionata relazione sentimentale, davvero rare nella cultura italiana del secondo dopoguerra. Il loro rapporto infatti durò più di un  ventennio. Dall’ unione nacque nel 1948 un figlio, Leone (nome scelto a ricordo del fratello della Pentich caduto da partigiano nel dicembre 1944 in uno scontro con gli ustascia croati).

La cura e l’affetto nei confronti del figlio, che dimostrerà seguendolo passo passo nella sua crescita fisica e nella sua naturale predisposizione all’ attività artistica e letteraria, sono ampiamente testimoniati nel suo libro I colori di una storia, momenti di vita e luoghi di poesia, pubblicato dal raffinato editore Scheiwiller nel 1993. Nella Premessa l’autrice sottolinea : «in quegli anni […] ero vissuta sempre in piedi sul ciglio di un abisso, ma col coraggio noncurante e divertito degli equilibristi. L’ebbrezza dei giovani anni inventava la musica, i colori, la festa d’ogni ora. Nel felice spreco di tanta ricchezza, dove e quando poteva insinuarsi il raggelante avvertimento della assenza?». Infatti alla fine degli anni Sessanta, il rapporto sentimentale, ma non artistico, con Gatto si incrina. Fra marzo e giugno 1976 moriranno tragicamente sia il compagno sia il figlio e per Graziana prevalse “la scelta del silenzio”. Così infatti si rappresenta nella poesia Dopo, segnata dai due lutti familiari : «come fragile insetto la mia riga / di tregua nella funebre musica / delle èlitre ritrovo».

Curò tuttavia la pubblicazione di alcuni dei suoi libri già citati e rimise ordine al cospicuo insieme di manoscritti, dattiloscritti, lettere, articoli, abbozzi, disegni e altri documenti sia suoi sia di Gatto. Decise poi nel 1993 di donarli in gran parte (con una aggiunta nel 2001) all’ Università di Pavia, per costituire il Fondo A. Gatto.

La morte la colse a Roma il 25 gennaio 2013.

Ma dopo quella quasi “fuga” dalla sua città «fredda spogliata» (v.1 di A Trieste, op. cit.) quando Graziana Pentich vi tornò ancora? Fu probabilmente il padre che le diede l’opportunità una prima volta di soggiornarvi per un periodo abbastanza lungo. È sempre quell’ originale testo a cui ho fatto più volte riferimento (I colori di una storia) a darcene conferma. Le pp. 50-53 rievocano la vacanza estiva (fine maggio – giugno del 1953) nella “piccola e rustica casa” di Sistiana, allora appartata e gradevole insenatura a pochi chilometri dal capoluogo giuliano che il padre di lei aveva trovato per la coppia e il bambino.

Ma anche nei Frammenti raccolti nel volume fondamentale dal titolo Opere 1947-1979, a cura di Luigi Lambertini, Bologna, Edizioni BORA, 1999, alla data 17 febbraio 1970 l’autrice, in un momento di ispirazione “opaca”, ricorda per contrasto la vivacità dei suoi quadri nel ’52, ’53, ’54. E la memoria indugia proprio su alcuni particolari di questa vacanza: la semplice casa dei Taucer che li ospitava, circondata da un fitto bosco carsico, le passeggiate con Leone piccolino lungo i viottoli dal«pietrame aguzzo», il ritorno «leggero, rapido, con gioia» a quel nido protettivo.

Ne I colori di una storia si ritrova un particolare che può far cogliere al lettore il contesto storico e culturale dell’epoca. Alfonso Gatto è in partenza per Milano perché assillato dal lavoro redazionale ad Epoca. Lascia, però, un biglietto di raccomandazioni alla moglie. Soprattutto lei dovrà evitare, scrive, se venissero amici e conoscenti, di permettere che il bimbo vada a passeggio con loro lungo la strada costiera e le altre vie limitrofe. Infatti sono troppo pericolose e continuamente percorse da jeep, camion militari, mezzi corazzati angloamericani. Il Ciccio (Leone) che è vivace, potrebbe sfuggir loro di mano. Sono i condivisibili premurosi assilli di un genitore, eppure tra le righe si intuiscono la precarietà e le tensioni che, soprattutto in quell’anno, Trieste stava vivendo politicamente. Infatti era imminente la conclusione dell’esperienza del TLT. La questione di una definizione chiara dei confini orientali dell’Italia da tempo era sul tavolo delle diplomazie statunitensi e inglesi che, nonostante Tito, volevano accelerare la conclusione del “caso Trieste”.

A proposito ancora di Sistiana, vorrei brevemente aggiungere che il poeta salernitano vi ritornò, molti anni dopo, per incontrare lo scultore Marcello Mascherini nella sua casa-studio. Risale al settembre 1967 (si veda Catalogo lettere ad A.G. – 1942 1970, Pavia 2000) una lettera dell’artista che invitava Gatto a tenere una conferenza nell’ambito di iniziative finalizzate alla valorizzazione del Carso in tutti i suoi aspetti.

Comunque le venute a Trieste della Pentich furono sporadiche e legate, a volte, agli impegni letterari che Gatto ebbe a più riprese con la nostra città. Negli anni Cinquanta la cura del bambino e la preparazione della sua prima personale a Venezia per la primavera del 1955 l’assorbirono totalmente. Anche i trasferimenti frequenti della coppia da Milano a Firenze e infine a Roma la costringevano a continui ambientamenti. Infine  come pittrice, esaurita una fase d’avvio molto feconda ed esplorativa, stava affrontando nuove, innovative esperienze artistiche.

Nel Fondo Pittoni presso l’archivio della Biblioteca Civica Hortis di Trieste, si trovano una cinquantina di lettere del carteggio epistolare fra la Pentich e Anita Pittoni. Grazie alla cortese disponibilità della curatrice dott.ssa Gabriella Norio, ne ho potuto leggere una gran parte. Lo scambio è particolarmente fitto fra il 1958 e il 1965. E lì non mancano riferimenti a ritorni brevi programmati o sperati della Pentich nella sua città natale.

In data 18 febbraio 1965 risponde ai pressanti inviti dell’amica, instancabile animatrice culturale dei Martedì letterari, nonché editrice e poetessa. Le promette di impegnarsi per organizzare il viaggio a Trieste in primavera di Alfonso e le prospetta per la seconda metà dell’anno una fattibile personale dei suoi quadri presso la Sala Comunale. Nonostante, aggiunge autoironica, «tu ben sai che non sono pittrice e neanche scrittrice in primis ma domatrice di Gatto e Leone; qui tutto si muove se io mi muovo». La mostra però non ebbe luogo e a Trieste non le fu più data l’opportunità di una personale. Infatti Graziana dovette attendere il 1971 per intervenire ad una mostra collettiva presso la Galleria Torbandena e il 1975 per vedersi invitata alla Sala di Palazzo Costanzi in una collettiva su “Donna e Società”. Ma niente altro.

Accanto alle poesie dedicate alla sua città e, come prima accennato, presenti sia in Una visita agli anni sia in Dove saremo un giorno a ricordare, non va trascurata la raccolta di brevi prose Una patria da trovare scritte tra il 1946 e il 1947, e pubblicate in Quaderni del Critone, Galatina 1961. Negli undici testi che compongono questo florilegio ella ricorda ed evoca luoghi, ambienti, figure della infanzia e giovinezza “nella mia straordinaria città”. Nel racconto eponimo Una patria da trovare , questa “patria” negli anni Trenta era stata per suo padre la Francia, paese in cui avrebbe voluto trasferire tutta la famiglia e nel quale pensava avrebbe potuto esprimere la sua aspirazione libertaria e socialista. Meta tuttavia irraggiungibile, e che anzi fu «una rottura, un dissolvimento nel cuore della famiglia già minata da molteplici dissensi e contrarietà» (pg. 59, op. cit.).

Vorrei  soffermarmi ancora brevemente sulle prose di questo “caro” volumetto, ormai introvabile (lo confermava già una lettera di lei alla Pittoni del 8 febbraio 1965). In uno stile limpido e a tratti poetico Graziana Pentich ricrea l’immagine della “sua” Trieste, filtrata dalla nostalgia per il forzato  distacco e dal ricordo quasi incantato di un mondo come sospeso nel tempo. Sembrano emergere dall’ombra di un aldilà che le ha inghiottite figure schiette e popolari, conosciute dall’ autrice nell’infanzia e prima giovinezza. Intorno a loro si percepisce spesso il senso di precarietà, di fuggevolezza della vita. Ne è un esempio nel primo racconto, Fiori di carta, la madrina di Graziana, fin dalle prime righe definita “la vecchia Kӧppel”. Quando la ragazzina quasi per caso va a salutarla nella modesta casa di via Paduina, prima di congedarla la Kӧppel, che è modista e creatrice di fiori e abiti di carta, le regala una delle sue creazioni. Ma il dono, inconsapevolmente, è allusivo a quanto sia effimera “la bella giovinezza” dell’adolescente a cui l’anziana donna vorrebbe rende omaggio.

In questo racconto alcune sequenze evocano la Trieste degli anni Venti e Trenta del XX secolo.

«La primavera lasciava veli e profumi nuovi nel lungo viale alberato [v. le XX Settembre], fresco di pioggia. I tram e i carri facevano un’ allegria di scampanellate e cigolii nelle strade lavate appena. Molta gente animata riempiva le vie, nelle pozze specchiava l’ azzurro il cielo rasserenato».

La casa dell’infanzia e adolescenza di Graziana si trovava nell’attuale quartiere di Scorcola. Forse vi era anche nata. Cito dal racconto Liubo:

«Grigia con due sole finestre, accostata a un’altra rosa, con crepe sui muri, come una casa di campagna, la mia casa guardava il sole. La casa dei miei quattordici anni. Era visibile fin giù dalla città, in alto sul monte [di Scorcola], sotto il castelletto dei Geiringer [oggi European School of Trieste]. Vi si arrivava per una via tortuosa [probabilmente via Marziale], lunga e stretta, in salita, che la mostrava lassù come ultimo termine, quasi il premio alla lunga fatica del salire».

Mentre una delle sue più care compagne di scuola, Luigia, «abitava dalla parte di via Romagna, più giù, su quella strada sempre deserta, fiancheggiata da muri alti che chiudevano giardini e frescura, che circondavano ville ricche e silenziose» (ibidem).

L’ambiente umano di questa parte della città, allora campagna, ricca di vegetazione, con qualche casetta che dava su cortili animati, e dove le dimore dei ricchi se ne stavano celate da parchi circondati da alti muri (cfr. i racconti Liubo, Un fatto nuovo e La mia collina) è ritratto dalla Pentich con toni che a volte ricordano il “realismo” poetico di Umberto Saba, la sua capacità di essere in simbiosi con la vita di tutti, soprattutto con la gente del popolo,  «di vivere la vita / di tutti / di essere come tutti / gli uomini di tutti / i giorni»( Il borgo, in Canzoniere).

Basterà questo semplice “qualcosa da ricordare” per evitare l’oblio di un’ artista capace di “esprimere la totalità del proprio essere sia attraverso i mezzi della pittura, sia attraverso quelli della parola, della scrittura”?

 

Alfonso Gatto con

Graziana Pentich