Epigrammi di Kuno Kohn

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di Walter Chiereghin

 

Mi è capitato una volta di scrivere, in margine a un’intervista a Ugo Pierri, che se anziché nella Trieste a cavallo tra XX e XI secolo fosse vissuto nella Firenze a cavallo tra il XIII e il XIV, non avrebbe indossato i panni di Dante Alighieri, ma sicuramente quelli di Cecco Angiolieri. Mi conferma in quella mia convinzione l’uscita di Epigrammi di Kuno Kohn, ultima fatica in versi del “pittore inediale”, ma anche “ poeta espressionista-crepuscolare, scrittore di racconti non più in voga”, come ama definire se stesso mettendo in campo anche in ciò l’arma affilata dell’ironica contemplazione della realtà che lo circonda, esercitata tanto nelle persone, quanto nella città che è teatro delle sue gesta artistiche, quanto – e non può essere diversamente – in se stesso.

Il titolo del volumetto è autoesplicativo, soprattutto per chi abbia presente che Kuno Kohn (altro pseudonimo da Pierri spesso usato) è il personaggio a sua volta alter ego di uno scrittore espressionista tedesco, Alfred Lichtenstein (1898-1914), caduto appena venticinquenne sul fronte occidentale subito dopo l’inizio della prima carneficina mondiale, nel settembre del ’14. Kuno Kohn, il personaggio di Lichtenstein, è un gobbo dietro cui si cela l’autore stesso, testimone e protagonista delle goffaggini e delle miserie morali entro cui grottescamente si muove.

Gli epigrammi di Pierri si presentano come la prosecuzione con altri mezzi di tanta parte della sua opera di pittore ed illustratore, oltre che di precedenti prove letterarie in prosa e, soprattutto, in versi, in ciascuno di tali ambiti facendo sovrintendere al proprio lavoro un profondo e acuminato senso dell’ironia, rivolto contro se stesso come contro il microcosmo triestino di cui alcune figure, pur senza essere nominate esplicitamente, sono efficacemente ritagliate dalla lama affilata dell’autore e messe a nudo nelle loro debolezze.

Marco Valerio Marziale, indiscusso maestro del genere, citava per nome i destinatari del suo sarcasmo, Pierri non lo fa, ma al lettore tutto ciò importa relativamente, essendo casomai impegnato a verificare se qualche sberleffo non sia rivolto contro chi legge, a rilevare un suo difetto celato, una sua manchevolezza tenuta nascosta, una debolezza emergente dai veli di una posticcia sicurezza, un vizio assurdo mimetizzato all’interno di un’ipocrita rappresentazione di sé.

La calibrata sinteticità dei ritratti appena abbozzati da Pierri contribuisce ad esaltare la resa caricaturale del malcapitato soggetto, ponendo in evidenza uno solo o pochi dettagli della sua personalità o della sua biografia, inchiodandolo così entro l’asfittico perimetro di un’irriverente istantanea.

È del tutto evidente che la lingua tagliente e non convenzionale dell’Autore non ha giovato alla sua popolarità all’interno dei chiusi circoli intellettuali della città né alla benevola accettazione da parte di quanti sono oggetto dei suoi strali, che per loro stessa natura non possono essere che estremizzanti; tuttavia la schiettezza risoluta dei suoi giudizi talvolta anche approssimativi e ingiusti ha determinato il progressivo crescere di una schiera di ammiratori (chi scrive tra essi), ammaliati dalla coerenza del personaggio e dalla non comune capacità di sottrarsi a qualsiasi smussatura accomodante delle sue convinzioni e delle modalità con le quali Pierri le condivide col suo pubblico.

Sullo sfondo di molti di questi ultimi epigrammi si staglia un protagonista non citato, ma del quale è facile avvertire la presenza: si tratta di quella che Pierri definisce la “ridente Necropolis”, la città che lo ha visto nascere nel 1937 e che tuttora lo tiene avvinto in un rapporto di odio-amore. Una necropoli riconosciuta come tale soprattutto da chi vorrebbe invece vederla e viverla come comunità dinamica e sensibile, concentrata sui caratteri distintivi del suo essere aperta ed accogliente, attenta ai valori della cultura, dell’arte e della giustizia sociale. Curiosamente, l’attribuzione di questo titolo di necropoli accomuna il nostro Angiolieri contemporaneo al nostro Alighieri del recente passato, ripensando a un verso dell’Epigrafe sabiana inciso sulla lastra di calcare che segna la sepoltura del poeta del Canzoniere: “Parlavo vivo a un popolo di morti”.

 

Copertina:

 

Ugo Pierri

Epigrammi di Kuno Kohn

prefazione di Vittorio Cozzoli

con un saggio di Mauro Caselli

Battello stampatore, Trieste 2016

  1. 170, euro 13