AUSTRALIA 6: GLI ABORIGENI DI ALICE SPRINGS

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di Pericle Camuffo

 

La città è deserta. Primo pomeriggio e le vie vuote, solo qualche turista intontito dal caldo che sbircia attraverso le saracinesche dei negozi chiusi. Più in là, aborigeni che percorrono la strada in gruppi ciondolanti di voci urlate e piedi trascinati. Qui, nel Northern Territory, sono circa un quarto degli abitanti dello stato, ma molti di loro vivono nella consapevolezza disperata che Colin Johnson ha descritto nei suoi versi: “Io so che sono / nessun gergo per favore / io so che sono / acqua e terra / mescolati con un po’ di vino. / […] / Se mi vuoi, prova a cercare nei parchi senza erba, / nella solitudine, vecchi uomini che si bevono la vita”.

Nelle loro bocche di saliva e sporcizia, nei loro occhi lucidi, gialli e profondi, nel loro ciondolare allucinato e ubriaco, ci sono solo domande senza risposte. Vagano cercando un senso, uno solo, alla loro terra che non c’è più, alle loro comunità che vengono chiuse una dopo l’altra con scuse che hanno il sapore delle vecchie politiche razziste del secolo scorso. Politiche che avevano lo scopo di farli sparire dalla vista dei bianchi, per proteggerli dall’estinzione, richiudendoli in riserve o missioni, veri e propri campi di internamento, o di ridurli a copie silenziose degli europei, ma che di fatto hanno solo nascosto contratti milionari con le multinazionali dell’estrazione mineraria. Alice Springs non è mai stata, per questi poveretti, né la città di Charles Todd e del suo fottuto telegrafo o quella del Ghan, il treno che la teneva unita ad Adelaide, ma era solo la loro terra e basta, terra che abitavano da almeno 10.000 anni, tutto qui. Non sanno nulla delle lunghe lotte che la sua gente ha sostenuto nelle corti dei vari stati negli anni Sessanta e Settanta, per farsi restituire le terre che loro hanno abitato da sempre, non sanno che queste lotte hanno portato nel giugno del 1976 all’emanazione dell’ Aboriginal Land Rights Act con il quale circa il 36 % del Northern Territory è stato restituito agli originari proprietari e forse non sanno nulla di Eddie Mabo, che vincendo la causa contro lo stato del Queensland nel 1992, ha sgretolato per sempre la finzione giuridica della terra nullius con la quale gli inglesi avevano giustificato fin dall’inizio l’invasione e la colonizzazione dell’Australia ritenuta, appunto, terra di nessuno, disabitata.

No, non sanno nulla di tutto questo, e forse se ne fregano perché per loro non c’è sentenza o soluzione, loro hanno deciso di essere solo facce che si rincorrono vicino al negozio degli alcolici, facce distese sui cofani delle macchine, facce verso le nuvole, facce sotto un albero nel Todd river sempre asciutto, arido. Facce come manifesti di una condanna, facce che fotografiamo per farle vedere a casa “I veri abitanti dell’Australia”, facce di cui ridiamo, facce di bava e versi immondi, facce sedute sull’erba nella notte di afa, facce di vestiti stracciati e scarpe rotte, di carrelli della spesa abbandonati nei parcheggi assolati, facce rannicchiate negli angoli di strade vicino al Pizza Hut, facce di cabine telefoniche dipinte con una cultura che è diventata ormai solo merce. Facce di vino e violenza e facce da scappare, da vendersi per qualche dollaro, facce cacciate via oltre la rete di un ristorante. Facce di malattie trascinate sui piedi nudi, facce senza più volto. Facce che hanno deciso di essere solo le facce degli aborigeni di Alice Springs. Sono sopravissuti, certo, a quel processo di sterminio fisico e culturale che ha riempito di sangue l’Australia fin da quando il Governatore Phillip ha poggiato il piede sul suolo di Sydney Cove nel 1788, ma sembra che siano sopravissuti invano.

Penso e vedo tutto questo oltre il vetro spesso del ristorante “Al Fresco”, dove vivo il mio privilegio in compagnia di una fetta di torta al cioccolato e un the, seduto comodo sulla panca imbottita di finta pelle rossa. Ma mi sento a disagio, mi sento quel “povero uomo bianco della razza infelice” di cui ha scritto Oodgeroo Noonuccal in un sua nota poesia.

Lascio il locale e cammino piano nel caldo insopportabile. Esco da Todd street e incrocio la Parsons che mi porta sulla lunga Leichhardt Terrace. C’è della musica, qualcuno che canta. Attraverso la strada deserta. Mi muovo lentamente tra aborigeni distesi e seduti sull’erba, cani e bottiglie di birra vuote e non suscito nessuna emozione, nessun occhio sbatte su di me e restano lì, statue svuotate e riempite solo di vento, ed è come se non ci fossi o fossi il vento che lasciano scivolare da sempre sulla loro pelle scura senza farci caso. Non c’è nessun tipo di scambio tra me e loro, non c’è scambio tra bianchi e neri qui ad Alice Springs, vivono nella più completa ignoranza gli uni degli altri, due culture chiuse in gusci d’acciaio ognuna con le proprie colpe e menzogne e grandezze, due culture che non si sfiorano, che vivono le proprie vite nello sforzo continuo e rinnovato di ignorarsi. Non c’è la volontà di condividere niente e la colpa di questa netta separazione viene data, per comodità più che per convinzione, agli aborigeni. Eppure, la prospettiva interculturale, la comprensione reciproca, l’incontro produttivo tra le due culture sono stati concetti fondamentali e più volte affrontati e proposti da molti attivisti aborigeni. Neville Perkins, già nel 1973, scriveva: “Come penso che gli australiani bianchi dovrebbero sfruttare la preziosa opportunità di imparare e trarre beneficio dall’apprezzamento della cultura tradizionale aborigena, penso che anche gli aborigeni devano sfruttare la positività delle innovazioni tecnologiche e conoscere di più le positive caratteristiche della moderna società industrializzata”. Ma qualcosa non ha funzionato, le distanze si sono aperte sempre di più scavando solchi profondi nelle menti e nei cuori. E il fiume di sabbia è pieno di questa gente che fissa il cielo con occhi lontani, spezzati.

Dopo un po’ capisco da dove viene la musica. Lì sotto, sul letto asciutto del fiume, c’è un tipo con la chitarra davanti ad un microfono. Vicino a lui, un furgone bianco, dove una donna sta preparando salsicce sulla griglia. Mi avvicino, ascolto le parole e cado in ginocchio sull’erba. Non posso credere a quello che sento: canzoni inneggianti Cristo e le sue azioni. Canta, poi si ferma e spiega, e poi riprende con la sua chitarra e la voce da prete. Pensavo che personaggi di questo tipo si fossero estinti da tempo. Evidentemente non è così. La convinzione di convertire i selvaggi per salvarli da se stessi è ancora funzionante in questo continente nuovissimo. E tutt’attorno c’è un’aria così tranquilla, c’è solo la voce del prete chitarrista che rompe il silenzio di queste persone che aspettano solo che le salsicce siano pronte e che sperano che dentro al furgone ci siano anche un paio di birre fresche.

Mi dà fastidio questa loro indifferenza. Dovrebbero linciarlo, assalirlo, non so, fare qualcosa. Gli aborigeni australiani si sono sempre opposti all’invasione delle loro terre da parte dei bianchi. Quando si sono resi conto che gli europei non erano visitatori temporanei ma che avevano intenzione di rimanere, hanno iniziato a cercare di capire chi fossero, cosa volessero, com’erano organizzati e, soprattutto, a ipotizzare e praticare strategie di riposta alla violenza sempre più crescente a cui erano sottoposti. Le loro lotte, le loro sconfitte e vittorie, le loro morti e il loro sangue, i loro nomi sono stati però estromessi dalla storia ufficiale australiana per quasi due secoli. Su questo “grande silenzio” è nata, cresciuta e si è perfezionata la narrazione dell’epopea bianca in Australia, dell’occupazione pacifica del continente, del mito della frontiera dove la colonizzazione si risolveva nella lotta dell’uomo bianco, dell’eroe colono-esploratore, contro le avversità della natura. Questa lotta eroica ha sorretto, ed in parte lo fa ancora, l’orgoglio nazionale dell’Australia bianca.

Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del Novecento, storici come Charles Rowley e Henry Raynolds hanno iniziato mettere in dubbio questa narrazione, presentando in maniera articolata ed approfondita l’esistenza e la consistenza della resistenza indigena all’invasione come realtà continuamente presente nella vita dei coloni. Grazie ai loro lavori, la storia dell’Australia nera è entrata per la prima volta nella storia dell’Australia bianca e, soprattutto, è stato svelato il loro fitto e costante intreccio. L’occupazione del continente non è stata per niente pacifica, ma vera e propria invasione, conquista basata sul sistematico e spietato annientamento dei suoi abitanti originari.

Gli aborigeni australiani non hanno accettato passivamente l’arrivo dei bianchi, lo smantellamento della loro cultura, l’espropriazione forzata delle loro terre ma, al di là del mito che li voleva ingenuamente tranquilli, ospitali ed incapaci di qualsiasi opposizione e per cui destinati ad essere sopraffatti, hanno reagito con fermezza e violenza. Pemulwuy, Windradyne e Yagan sono i protagonisti più citati dell’iniziale resistenza aborigena. Resistenza, va ricordato, che non è stata omogenea risposta di un movimento di rivolta organizzato, ma condotta di solito con azioni isolate di gruppi o singoli, una sorta di guerriglia spontanea, di orgoglioso e creativo rifiuto, simile a quello di molte altre popolazioni indigene azzannate dal colonialismo europeo.

Questa prima forma di resistenza, come noto, non è sopravvissuta. Le forze in campo erano del tutto sbilanciate a favore dei coloni. Decimati dalle armi da fuoco, dalle rappresaglie, dai massacri, dagli avvelenamenti, dalle malattie introdotte dai bianchi, gli aborigeni hanno rischiato l’estinzione. Ma non hanno smesso di lottare.

La resistenza aborigena, infatti, è cresciuta e si è perfezionata, con adattamenti e ristrutturazioni, durante tutto il XX secolo e, in questo primo scorcio di nuovo millennio, è diventata questione presente e centrale nell’agenda politica dei vari governi che si sono succeduti alla guida del paese, ma anche argomento di dibattito, attenzione e riflessione all’interno dell’attivismo internazionale per i diritti umani e civili.

Ma tutto questo sembra così lontano, sembra così estraneo alla loro esistenza, come se non li riguardasse. Ed io mi chiedo, cos’è stato, allora, a ridurli così, a svuotarli dall’interno, a renderli semplicemente e soltanto gli aborigeni di Alice Springs.