Una vita breve e difficile

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Sylvia Plath, la Lady Lazarus che morì suicida e risorse nella poesia

di Francesca Schillaci

 

«Morta sucida dopo essere stata abbandonata dal marito; eroina del movimento femminista degli anni ’60-’70; poeta di una poesia confessionale». Questo e molto altro si legge ancora nelle quarte di copertina, in saggi critici, in lezioni universitarie di letteratura americana che hanno contribuito a confondere e distorcere la figura di Sylvia Plath (Boston 27 ottobre 1932-Londra 11 febbraio 1963) e la sua potentissima produzione poetica che nulla ebbe a che fare con i connotati semantici di queste dichiarazioni.

Nata e cresciuta in una famiglia di stampo liberale, da genitori di origini tedesche abituati per condizione sociale ad essere degli europei trapiantati in America, Plath visse un’infanzia serena tra le attenzioni amorevoli della madre Aurelia e la figura austera del padre Otto Plath, uomo “colosso” impegnato nelle scienze e nella ricerca, convinto che la moglie dovesse occuparsi della casa e dei figli, accompagnandolo come assistente nel suo lavoro. Rinunciando a tutte le sue aspirazioni letterarie. Niente di nuovo originale per gli anni Trenta, ma determinante per quella figlia che avrebbe condannato presto l’immagine unilaterale della donna servile, rivendicando il diritto di essere sia artista geniale che madre e moglie amorevole. Una dimensione di sdoppiamento che le costò la vita, ma che determinò una delle più grandi potenze poetiche della letteratura internazionale. Per inseguire questa bidimensionalità, Plath rincorse per tutta la vita l’eccellenza, non accontentandosi mai degli ottimi voti e dei primi premi letterari a scuola, della sua bellezza tra i corridoi dello Smith College, della sua posizione di giornalista nel giornale dell’università.

Nulla era abbastanza. La morte del padre, avvenuta quando lei aveva otto anni, fu la prima miccia che innescò un lungo e doloroso processo di delirio silenzioso, interiore, possibile da sublimare solo attraverso la poesia, la parola declinata in immagine, là dove non esiste censura, errore, giudizio né premio. Parole vomitate nei Diari così come nell’opera Colossus, descrivono il padre come un mostro, una figura del male, l’incarnazione della sofferenza dei campi di concentramento che nulla ebbero a che fare con Otto Plath, antinazista dichiarato, ma che persistevano come nozione storica nella mente immaginativa di Sylvia per il suono duro della lingua tedesca «un Dachau fisico e psicologico». La madre non permise ai figli di vedere il padre defunto né di partecipare al funerale. Il lutto non venne vissuto né affrontato, rimase aleggiante tra le mura di casa e nella fatica della madre per mantenere i due figli da sola. L’incolmabile assenza della figura paterna si rivelò presto una presenza ingombrante che rappresentò per Sylvia Plath un principio di confessione da intraprendere con se stessa e con il mondo, una colpa da espiare a tutti i costi lavandosela di dosso con fiumi di parole, di rabbia consapevole, di diritto al dolore che non le era stato concesso per pudore e riservatezza tipiche della madre, figura emblematica della decenza morale, stoica in ogni gesto. «Ho dovuto ucciderti, papà./ Sei morto prima che avessi il tempo» (Papà, 1962). Il doppio divenne la sua condizione vitale, lo indagò e lo subì fino alla morte. La sua tesi di laurea sul tema dello sdoppiamento in Dostoevskij; le lettere alla madre dove scriveva frasi amorevoli, descrizioni minuziose della sua vita al college, dei suoi successi, della frivolezza ricercata nella moda si contrapponevano nelle dichiarazioni intime, scritte nei Diari, dove confessava le sue pulsioni sessuali, l’incapacità di integrarsi nelle civetterie delle ragazze di buona famiglia e il desiderio però di appartenere ai salotti intellettuali come possibile via per essere la grande poeta che aveva giurato di diventare.

È stato in quei salotti che conobbe, amò e poi sposò Ted Hughes, il grande poeta americano riconosciuto in tutta la sua fama, che presto diventò anche il padre dei suoi figli. Insieme intrapresero una vita sentimentale profondamente letteraria, una corsa ambivalente all’altezza poetica che per Hughes si rivelò infestante, ingombrante. Lui così bello e prestante, poteva essere messo in ombra dal genio di quella giovane ragazza che voleva condividere ogni passo con lui. Iniziarono i tradimenti che portarono Sylvia a chiedere la separazione.

Nel 1962 si trasferì a Londra nella casa dove visse il poeta Yeats e là, sola con i bambini, produsse in tre mesi più di trenta poesie, considerate oggi tra le più alte della sua produzione: Lady Lazarus, Ariel, Donna senza figli, Febbre a 40 per citarne solo alcune. Continua a scrivere lettere alla madre, nel tentativo di conservare intatta ai suoi occhi l’immagine di figlia indipendente e fortissima, disprezzando ogni suo consiglio morale: «Credo che si debba guardare in faccia il peggio e non nasconderlo» le scrisse. La sua più grande paura era «la morte dell’immaginazione», poiché «le esperienze, anche le più terrificanti, anche la pazzia, anche la tortura vanno manipolate». Molte sono le frasi che dichiarano la consapevolezza della sua condizione, per nulla preda solo degli sprazzi emotivi, dei sussulti del cuore, ma salda nella manovra della parola, nella sua scrittura e riscrittura, che partiva sì dalla sua esperienza più intima ma si tramutava poi in opera poetica, scindendosi da ogni banale autobiografismo.

È questo l’errore che da sempre si è commesso: ricercare ostinatamente un riferimento preciso alla vita personale di un artista dentro le parole che scrive. La letteratura sublima la vita. La deforma per renderla più sopportabile, un’opera magna da poter recitare, cantare, procrastinare ancora per non morire troppo presto nell’inevitabile frustrazione che passato e futuro, unici elementi del presente, portano con sé. Le sue ultime poesie Plath le scrisse perché fossero recitate e non più solo immobilizzate sulla carta. E poi ci fu il rapporto con la morte. Figura sorella che l’accompagnò dall’età di dieci anni, nei suoi tre tentativi di suicidio, il secondo avvenuto a vent’anni, dopo aver preso dei sonniferi ed essere rimasta per quasi due giorni agonizzante dentro una legnaia. La trovò il fratello “unico vero amore” della sua vita perché estraneo a qualunque tensione erotica. Insieme all’amica Anne Sexton, futura poeta suicida con cui condivise le lezioni di poesia da Robert Lowell, si divertivano a raccontarsi il loro corteggiamento alla morte, i tentativi di suicidio, la messa in poesia di quello stato febbricitante che porta all’atto estremo, il tutto condito da bicchieri di Martini scolati nei pomeriggi dei loro vent’anni, sbeffeggiando la fine della vita forse anche per esorcizzarla. Il suicidio era ed è ancora visto come una colpa e mai come una scelta. Un altro modo di morire. Per l’impianto sanitario americano, andava indagato empiricamente e manipolato di conseguenza con gli elettroshock che Sylva, come molte altre donne prime e dopo di lei, subì a più riprese.

Sono gli ultimi mesi della sua vita, a cavallo tra il 1962 e il 1963 che definiscono perfettamente quanto la poeta fosse lontana da ogni ideologia politica e da etichette letterarie poi affibbiatele. Ogni poesia era slegata da convenzioni e accademismi, appartenente solo al suo talento poetico. La sua morte ha portato con sé il delirio di impossessarsi delle sue poesie come portavoce del femminismo degli anni Sessanta e Settanta, riducendola invece alla classica donna vittima degli anni Cinquanta morta per abbandono del suo uomo e che dunque andava rivendicata dalle voci femministe. Nulla di più sbagliato, poiché fu proprio Sylvia Plath a decidere di vivere una vita che comprendesse tutto e a sottolineare continuamente nei suoi Diari e nelle sue poesie la frustrazione della maternità che la straniava dalla sua scrittura, tanto quanto l’amore che allo stesso tempo nutriva per i suoi figli. Essere traditi dal marito diventava spesso uno stigma di vittimismo che inevitabilmente portava con sé un compatimento che Plath detestava e rinnegava.

Fu madre, moglie e poeta visionaria, strega letteraria portatrice di oscurità («Che cos’è la vita? Per me sta così poco nelle idee. Le idee mi tiranneggiano: le idee del mio Super-Io livoroso di strega-regina» Diari 1959), scrittrice sovversiva, ammaliatrice di se stessa e di un mondo che non era pronto ad accoglierla del tutto perché considerata pazza. E i pazzi, si sa, fanno paura tanto quanto le donne capaci di svelare nuove dimensioni senza l’ombra di un uomo. Definire un genio un pazzo è la svolta più comoda per non soccombergli. Fedele alla sua linea morì nel doppio, portando la colazione in camera dei suoi bambini, spalancando la finestra della loro camera, per chiudersi poi in cucina, isolando bene tutte le fessure e accendere il gas del forno nel quale mise la sua testa, abbandonandosi ad un sonno, più che a un sogno, dal quale non ci è dato di sapere se volesse essere svegliata, come molta critica sostiene per l’ultima frase lasciata scritto su un foglio: «per favore chiamate il dottor Horder». Oscillare tra la vita e la morte fu per Plath l’unico modo da accettare per poter creare la potenza della sua poesia: «Morire/è un’arte, come qualunque altra cosa./ Io lo faccio in modo magistrale/ lo faccio che fa un effetto da impazzire/ lo faccio che fa un effetto vero/ Potreste dire che ho la vocazione» (Lady Lazarus, 1962). Così, quando alla fine si lasciò inghiottire dal “demone” come chiamava lei la sua vocazione poetica, passò gli ultimi mesi con la febbre, dimagrendo, occupandosi diligentemente dei figli e scrivendo di notte come un’ossessa. Confessò alla madre in una delle ultime lettere che grazie a quello stato febbricitante riusciva finalmente ad accedere al massimo della sua creazione. Naturalmente, le nascose fino alla fine i lati oscuri del suo essere, convinta che la verità andasse filtrata e maneggiata, che i suoi demoni non potessero essere svelati completamente. In questo lato oscuro, nel suo splendido doppio, Sylvia Plath ha creduto di manipolare il mondo, di tenerlo fermo dentro un pugno come un incantesimo dei più sofisticati, una maledizione che divenne un’arte e che avrebbe reso immortale la sua poesia solo con la morte.

 

 

 

 

Ad oggi ci restano le raccolte di poesie Colossus, Ariel, Crossing the water, Winter Trees, Lady Lazarus, il romanzo autobiografico The Bell Jar e i Diari. Questi ultimi sono incompleti per mano di Ted Hughes, il quale scelse di curare l’intera opera poetica di Plath, bruciando pagine che narravano probabili atti di violenza nella coppia. Dopo la morte di Sylvia Plath, la compagna di Hughes, si suicidò a sua volta. Molti anni più tardi, la stessa sorte toccò anche al figlio più piccolo, Nicholas Hughes. Ted Hughes morì all’età di 68 anni con la fama di essere stato il marito della grande poetessa Sylvia Plath e non più solo Sylvia Plath moglie e madre dei figli del grande poeta Ted Hughes. Le letture comparative che hanno rivendicato a Sylvia Plath il diritto di essere letta e studiata secondo fonti certe e competenze poetiche degne della sua produzione, riconsegnandole finalmente la sua dignità come poeta e non come eroina femminista, sono Vita di Sylvia Plath di Anne Stevenson (Saggi Mondadori) e Il lamento della regina di Leonetta Bentivoglio (Edizioni Clichy). Il documento ad oggi più utile in assoluto per comprendere e sentire questa splendida artista sono i Diari (Adelphi) e le sue poesie, con una particolare attenzione all’opera Lady Lazarus e altre poesie ristampate quest’anno in occasione del sessantesimo della sua morte da Lo Specchio Mondadori con la traduzione di Giovanni Giudici.

 

 

Sylvia Plath