“Viziosamente” in libreria Giuseppe O. Longo

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Richiamando per ispirazione i sette vizi capitali pubblicati venti racconti esemplari dello scrittore e scienziato

di Fulvio Senardi

 

In una straordinaria fase di esuberanza creativa, Giuseppe O. Longo, tra i migliori scrittori italiani dei nostri giorni, fa giungere in libreria I vizi capitali (2018, Jouvence, Milano, pp. 208, ε 18). Il titolo scopre il criterio strutturale adottato da Longo per dare compattezza a un fascio di racconti scritti in momenti diversi del suo percorso di narratore, ancorché, come specifica una nota d’autore, quasi tutti rivisti in anni recenti o recentissimi. L’artificio di raggrupparli per ordine “tematico” (sette sezioni come i sette vizi capitali, criterio analogo a quello adottato per l’Antidecalogo, del 2015) può sembrare, e in parte lo è, un modo per contrastare la dispersività di scaglie narrative assai diverse per modalità di scrittura, struttura narrativa, tematiche. C’è il racconto in prima e in terza persona, c’è il flusso di coscienza, la riscrittura mitologica, la novella, grosso modo, fantascientifica, e la rappresentazione realistica della vita quotidiana (e mai, si badi bene, mai nulla di direttamente confessionale).

Cambio di passo a intervalli regolari, dove ciò che rimane costante è la scrittura vellutata e musicale cui questo narratore ci ha abituati. Longo, bisogna sapere, non è estraneo all’arte del romanzo (basterà ricordare lo splendido Acrobata), ma negli ultimi tempi predilige una forma narrativa di taglio breve, la più adatta, mi pare, a sciogliere le briglie al suo estro di scrittore poliedrico. Per andare al nocciolo del nuovo libro, va detto che scrivere dei Vizi capitali (come per altro produrre un Antidecalogo) rivela un’intenzionalità, di chiave ironica e demistificatrice, volutamente “anti-pedagogica” (o di quella pedagogia settecentesca che, in forma di libero pensiero, relativizza il mondo e la coscienza, con attitudine sarcastica, veramente en philosophe, verso ogni dogma o principio primo). Piccoli lampi di luce (il racconto più lungo, Affondare, supera appena le venti pagine) che smascherano sorridendo (il serio ludere della retorica rinascimentale) le semplificazioni, le falsità, le ipocrisie che si intrecciano nell’agone esistenziale. Detto altrimenti: Longo sospende ogni giudizio etico fondato sul senso comune, per muoversi (ma evitando cerebrali scandagli psicanalitici) in direzione di quell’umano, troppo umano alla base delle nostre strategie di sopravvivenza e dei compromessi più o meno consapevoli che danno fiato – qui siamo tutti in gioco – alla speranza di felicità. Conclusione provvisoria che va attenuata sottolineando come stia stretta ogni formula interpretativa, anche quella appena proposta, alla strepitosa versatilità dell’autore dei Vizi capitali. Le suggestioni e i modelli, e da qui le traiettorie di scrittura, cui risponde, per echi di concordanza o di contrasto, la sua inventiva sono molteplici, volutamente elusive, se non addirittura insondabili.

La sfida enciclopedica, da un lato, alle modalità del narrabile e all’universo del narrato, dall’altro a quella “memoria” – siamo ora dalla parte del lettore – facoltà necessaria anche nella Modernità (per i tempi antichi resta decisiva la riflessione di Gian Biagio Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario) per una fruizione consapevole dell’arte, è l’incruento gioco del gatto con il topo che rende la provocazione di Longo narratore un’esperienza caldamente raccomandata. Risultato: mentre veniamo fagocitati nelle seducenti atmosfere dei venti universi centrifughi dei Vizi capitali, una parte di noi è all’opera per scoprire analogie e antecedenti, realizzando quella funzione di “riconoscimento” in cui consiste gran parte del cosiddetto piacere estetico (posizione mi si obietterà, “aristocratica”, perché presuppone una “sapienza” che è, per definizione, attributo di pochi, ma, credo di non offendere la democrazia sostenendo il valore delle competenze, soprattutto in un’era, suggerisce Tom Nichols di Harvard, incline a negarle).

Il narratore intanto sorride beffardo e compiaciuto. Ma ciò fa parte del fascino di pagine che non deludono mai e il cui dono al lettore è un insinuante quanto indefinibile piacere del testo (qualità tanto sfuggente che un Roland Barthes non seppe articolare intorno ad esso che un discorso fatto di scaglie e frammenti). Qui ovviamente entra in campo tutto il nostro bagaglio di esperienze di vita e di lettura, e si intrecciano con saldo nodo il piacere e il godimento, condizioni fruitive che Barthes giudica sostanzialmente contrapposte (fondato il primo sulla conferma, sensazione confortevole e tranquillizzante, amministrato il secondo dai brividi del perturbante). Matassa di sensazioni suscitate dal paradosso di un testo che, come tutti i libri che valgono, riesce a farsi ascoltare, ma “indirettamente” (Barthes).

Detto questo, aggiungeremo che alla radice della complessa morfologia di forme di scrittura e di spunti tematici dei Vizi capitali si trova un’antropologia di sostanza amara, ma capace di sorridere della natura perfida dell’animale uomo (in questo caso Longo si situa tra Machiavelli e Freud), teso al proprio “piacere” ma non sempre lucido nella coscienza di sé; e pronostici altrettanto pessimistici sul futuro dell’umanità, per i quali lo scrittore attinge, oltre che alla propria competenza di scienziato (scettico, però, quanto alle “magnifiche sorti e progressive”) alla letteratura di genere, di cui azzera lo spirito d’avventura, esasperando invece, sull’onda di un Kulturpessimismus di marca mitteleuropea, la malinconia del futuro (penso, altissimo antecedente, al Bradbury di Cronache marziane, elegia di una civiltà che va spegnendosi). Vi sono, e non potrebbero mancare, anche racconti di taglio più tradizionale (ma che pure celano sollecitazioni intriganti): il pensiero va al già citato Affondare che, implicito omaggio a Svevo, declina – nella forma di una tranche de vie moderna e triestina, volutamente ingrigita con le tinte smorte dell’“inettitudine” (il tema par excellence dell’autore di Zeno) – il più antico dei soggetti borghesi, quello del tradimento coniugale. Più spesso però, già lo si accennava, è il “perturbante” a farla da padrone (l’Unheimlich di freudiana memoria), sia nella forma, cara al Buzzati novelliere, dello straordinario nella normalità, sia in quella, ben nota alla letteratura della prima età romantica e alla scrittura di genere, della normalità nello straordinario. Gusto della dissonanza e piacere dello spaesamento, che possiamo assaporare affondati nel divano di casa. L’arte è fatta per disturbare, amava ripetere Salvar Dalì. Qui il disturbo è scusato, anzi, del tutto gradito.