Un “cantiere” aperto

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Il diario di Giani Stuparich del 1913-1915 pubblicato dalla EUT, Edizioni dell’Università di Trieste

di Gianni Cimador

 

Dopo la pubblicazione, nel 2019, dell’epistolario di Giani e Carlo Stuparich, curato da Giulia Perosa, il Diario 1913-1915 di Giani Stuparich (EUT, 2022), a cura di Anna Storti, è il secondo volume della collana “Archivio Stuparich”, che intende presentare lettere e pagine di diario, inedite in parte, acquisite dalla Biblioteca Civica “Attilio Hortis” di Trieste, molto interessanti perché aprono una finestra sul processo di formazione, umana e culturale, dello scrittore in anni cruciali come quelli immediatamente precedenti e successivi allo scoppio della Prima Guerra Mondiale.

Il diario, che Stuparich inizia nel 1913 quando è studente all’Università di Praga, è un documento finora inedito, nato dalla necessità di chiarimento interiore e di definizione della propria visione della realtà e dei propri ideali poetici ed estetici: proprio per questo non ha l’organicità e la compiutezza dei testi maturi; rivela anche nello stile ancora acerbo e diretto l’urgenza di raggiungere una posizione chiara e coerente sul mondo, mettendo a fuoco i propri stati d’animo, spesso conflittuali e contraddittori; è l’espressione di un giovane che vive ancora una vita precaria, senza riuscire a proiettarsi nel futuro, e cerca nel presente una pienezza irraggiungibile, non avendo una lucida consapevolezza delle proprie risorse e dei propri limiti.

Più che un racconto dei fatti quotidiani, quello di Stuparich è un diario intellettuale, povero di notizie, che ci rivela aspetti della sua personalità poco esplorati o rimasti in ombra in Trieste nei miei ricordi, l’opera più autobiografica dello scrittore.

La sensazione è di trovarci di fronte a un cantiere aperto, dove tutto è in divenire e cambia continuamente: di questo Stuparich è consapevole quando osserva che «Bisognerebbe ogni giorno scrivere la risultante di tutti i pensieri che si sono dibattuti in noi, di modo che un diario dovesse esser la linea somma dello svolgimento d’un individuo. Ma è postulato assurdo e astratto», perché «i pensieri non si sommano e dalla somma si fa una media, bensì ogni pensiero è nuovo, autonomo sorge da sé e si sviluppa da sé. Un diario ha da esser quindi un’anima riflessa in espressioni di momenti suoi. L’espressione è l’intimo nesso d’un diario».

Oltre a essere un’occasione per esplorare sé stesso e per apprendere dalle esperienze rivissute nella scrittura, il diario è uno stimolo per il raccoglimento nei momenti di crisi, un rifugio, «ritorno al proprio castello dopo le razzie nel campo della storia e della natura, ritorno costante, quando fa sera e si sta bene sotto il proprio lume».

Negli anni tra 1913 e 1916 molti avvenimenti e cambiamenti si susseguono nella vita di Stuparich, senza che possa pienamente rielaborarli: si va dal periodo a Praga ai soggiorni a Berlino e Amburgo (dove visita Scipio Slataper), fino al ritorno a Trieste, dove insegna alla Scuola Nautica, in un contesto sempre più incerto e movimentato, alla tesi di laurea a Firenze su Machiavelli in Germania e all’espatrio clandestino che lo porterà tra le file dell’esercito italiano con il fratello Carlo, morto nel 1916. E poi sono anni in cui si rafforzano amicizie che avranno grande importanza nella vita di Giani: oltre che con Carlo e Scipio Slataper, il futuro scrittore si confronta intensamente con Giuseppe Prezzolini, punto di riferimento intellettuale e destinatario della prima produzione saggistica sulla Voce, con Guido Devescovi e Alberto Spaini.

Rispetto al rapporto con Scipio Slataper, di cui Stuparich raccoglierà l’eredità spirituale, è già chiaro comunque quanto li differenzia: mentre Scipio è «concarnato nella storia» e «sente proprio e vive il concatenamento ideale dei fatti […] E anche se in qualche parte vede ancora scuro, sa che ritornandoci, più pieno, chiarirà sempre più l’ordito, e che con ciò la sua comprensione universale si farà più ricca e più profonda», Stuparich sente invece in sé ancora uno squlibrio, una divaricazione tra «l’assolutezza individuale, il libero arbitrio, l’irrazionalità monadistica» da una parte e, dall’altra, «questa storia necessaria che procede e involge, severa, logica, stringente, ogni cosa nella sua dialettica, e in cui il mio individuo e gli altri individui si sommergono, perché relativi». Sono due prospettive tra le quali Stuparich oscilla, con la consapevolezza che, prima o poi, dovrà prendere una posizione netta, anche sul piano esistenziale: «Prevarrà la natura di buon figlio borghese o il cinico vagabondo nascosto in me?».

Al diario Stuparich affida anche in qualche modo il compito di oggettivare le pulsioni contrastanti e le diverse vocazioni che lo attraggono, con l’obiettivo di agire concretamente, oltre che di chiarire la strada che deve percorrere.

Quando parla dell’università di Praga, che pure era di buon livello, Stuparich ne dà un giudizio molto negativo, e forse un po’ ingeneroso, condizionato probabilmente dal senso di solitudine di cui soffriva nella capitale ceca per la lontananza da casa e dagli amici, e per il clima freddo e sempre umido: lo opprime il filologismo accademico fine a sé stesso, «tutta sta atmosfera di miasmi dalle fabbriche filologiche, di puzzo dai camini grammatico-verbali e di veleni fumanti dalle fiasche di pigrizia borghese e di ben maliconico stare e dai letamai di morali serra-occhi e mazza-pidocchi». Si  tratta di una considerazione durissima, fatta da uno che si sente “esiliato”, anche se gli anni praghesi daranno a Stuparich una prospettiva molto ampia sulla letteratura e sull’arte tedesca contemporanee, e più in generale su scrittori del “modernismo” ancora sconosciuti in Italia come Thomas Mann, Rainer Maria Rilke, Karl Kraus, Max Dauthendey.

Più che alle novità formali, Stuparich è interessato a quelle contenutistiche, rilevanti in Dostoevskij, letto in traduzioni tedesche, “capolavoro di modernità”, anche per la presenza di temi come la diversità e l’irrazionale, tipici della grande letteratura della crisi primonovecentesca.

A Praga Stuparich è lontano dalle sue radici culturali, quelle che sente con forza a Firenze, nell’ambiente culturale vociano, dove approfondisce la conoscenza di Croce e Gentile e matura un nuovo ideale di intellettuale, impegnato attivamente nella società, che persegue già nei primi articoli pubblicati sulla Voce, dedicati alla Boemia ceca e al “risorgimento” del paese, dovuto, oltre allo sviluppo economico, al notevole innalzamento del livello culturale, con una conseguente maggiore consapevolezza della propria identità nazionale.

A stimolare la redazione del diario è anche l’esigenza di esercitarsi nella lingua italiana e di acquisire uno stile, sperimentando diverse soluzioni formali. Soprattutto all’inizio, la scrittura è faticosa e contorta, si nota la difficoltà di esprimere chiaramente, con espressioni adeguate, le proprie idee, rilevata anche nella composizione degli articoli per la Voce: «Succede uno sdoppiamento: quel che ho come musicalmente espresso nell’anima afferro rozzamente con una prosa già fatta, e perciò non lo ridò palpitante e in formazione ma freddo e sciolto, e solo dopo con un lavoro d’autocritica e di ragione rinforzo il nerbo a quel che ho espresso. Ma così quel che scrivo mi costa pene, e mai non riesce pieno e intero come vorrei. Bisogna che la mia espressione nasca e viva con l’idea, sia l’esecuzione immediata e necessaria della musica interna che si svolge; non un correr dietro e zoppicar di tasti».

Già il riferimento di apertura a Novalis («Le parole dice Novalis formano un mondo autonomo come le cifre della matematica e tutto sta saperle armonizzare») segnala quanto stiano a cuore a Stuparich il valore e il corretto utilizzo delle parole che devono tendere a uno stile il più possibile “trasparente”, rappresentato con la metafora dell’alabastro, «che è tutto luce e tutto materia, sino all’anima, sino all’ultima intimissima molecola concretizzata».

L’attenzione nei confronti delle parole e la “sensibilità ai segni della natura” che, come ha notato Giuseppe Sandrini, caratterizza il primo Stuparich, sono evidenti nei passaggi in cui vengono descritte, con una sensibilità quasi pittorica, sensazioni visive, auditive, olfattive: come precisa Giani, si tratta di «Raccontare. Abituarsi a raccontare. Scrivere interrompere leggendo quando s’inciampa e s’è stanchi e rimettersi a scrivere. Bisogna farvi la mano e la mente. Accelerare il moto d’intuizione complessa e organizzata e di composizione. È un tener desto lo spirito. Uscire e guardare coordinando. Ecco una passeggiata con lo scopo di raccontarla ritornati a casa».

Sebbene Stuparich non ami particolarmente il Futurismo, a volte il suo stile ne richiama alcune soluzioni sintattiche e l’attenzione verso la velocità.

Per quanto riguarda le letture, oltre a quelle di autori tedeschi che deve fare per gli esami universitari (Novalis, Kleist, Herder, Goethe, Lessing, Hebbel, Nietzsche), Stuparich privilegia i testi filosofici che lo aiutino a combattere «il maggior male del nostro momento storico», ovvero «la mancanza di una stella fissa che ci orienti nel complesso cercare e multiforme vivere, il quale per noi, per la più parte di noi, resta senza riferimento»: in sé stesso sente «bisogni ed esigenze che sono più d’uomo morale che d’artista, più di filosofo che di religioso, più di riflessivo che di istintivo, più di raziocinante che di sensitivo, più di un cervello che di un cuore».

Si definisce quindi già in queste pagine quella tendenza alla sincerità e a evitare atteggiamenti meramente esteriori o retorici, che costituirà la cifra di Stuparich narratore e uomo: per il giovane studente universitario bisogna assolutamente evitare i rischi del romanticismo che «non è solo sentimentalismo, […] ma anche fine malattia che s’insinua nelle fibre e pervade, non sentita, il sangue e ci si accorge appena quando l’anemia è all’ultimo stadio. È il sentimento battuto dalla ragione che […] inacidisce e si diffonde, di soppiatto, come un lento veleno nei nervi stessi che lo sferzano».

Anche se Papini e Prezzolini sono dei promotori del romanticismo tedesco in Italia e delle correnti filosofiche antimaterialiste e soggettivistiche, Stuparich non ama per nulla «le sdolcinature sentimentali letterarie di un’anima nel fondo perversa, i lagni pseudo-usignoleschi d’un cuore insulso», perché «sono pseudo-romanticismo, esistito in tutti i tempi da quando mondo è mondo»: si tratta di distinguere il vero romanticismo di autori come Heinrich von Kleist dal falso romanticismo, retorico e individualistico.

Per combattere l’ “individualismo empirico” che porta l’uomo a chiudersi in sé stesso, è necessario per Stuparich «capovolgere la visione del mondo […] Sfatare l’io personale qualunque forma investa: sia come individuo sociale, cellula d’un vasto organismo, la società; sia come organo di cultura, retorico muratore che porta la sua pietra all’edificio della civiltà […] Sgonfiare ogni vescica dobbiamo, di sospiri e di lagrime e di glorie perdute»: si tratta di elaborare una visione universale, capace di «penetrare le nostre persone come le cose nostre; la nostra visione sia visione del tutto su noi e sugli altri!». In questo senso, lo “stile trasparente” di Goethe e di Lessing è un modello, non solo culturale ma anche esistenziale.

La necessità di superare la dicotomia tra teoria e pratica, pensiero e azione, e di radicare ed esprimere i propri valori nella storia, ma anche il «temperamento romantico» e la «tendenza d’allora a teorizzare in assoluto» fanno avvicinare Giani al pensiero idealistico di Giovanni Gentile, che vuole essere una filosofia calata nella vita, non propedeutica all’azione ma totalmente coincidente con l’azione e con l’attività creatrice dell’uomo: in una prospettiva del genere, «Filosofia è vita che si fa, bisogna capire: vita per sé è punto morto (perciò non si può annegare la filosofia nella vita), il principio vitale della vita è la filosofia (ecco perché la filosofia è immanente alla vita, e la vita è morta senza la filosofia)».

Nei due modi diversi di intendere l’Idealismo da parte di Gentile e Croce, che si confrontarono aspramente sulla Voce tra il 1913 e il 1914, Stuparich proietta le opposte tensioni della sua personalità in formazione: se di Gentile ama i toni appassionati e quasi religiosi, che possono affascinare un giovane di vent’anni più di un pensiero freddamente sistematico, per motivi psicologici piuttosto che teorici, per quanto riguarda Croce riconosce che il filosofo è stato «il più completo, il più sicuro sul suo posto» e gli ha dato «visioni più larghe e penetrazioni più profonde di problemi particolari, coscienza storica e sapienza educativa, senso di concretezza e serietà di lavoro».

Sebbene molti giovani intellettuali fiorentini considerassero la filosofia dello spirito di Croce uno “schiocchezzaio”, per Stuparich è stata invece fondamentale, perché «attraverso la filosofia dello spirito mi sono temprato ad annullare decisamente me stesso per ritrovarmi libero d’ogni Universale fatto d’ogni verità d’ogni umanità d’ogni divinità, per ritrovarmi puro d’ogni autorità consacrata o accettata».

Come forse in nessun altro testo, Stuparich sottolinea il contributo decisivo che il pensiero di Croce ha avuto nella formazione della sua struttura mentale e nel dare una sistemazione alle diverse e contraddittorie suggestioni culturali che nel periodo della giovinezza lo affascinavano, consentendogli di vedere i limiti del soggettivismo irrazionalistico di Giovanni Papini, che «assorbe annulla distrugge gli altri per affermare solo sé stesso ossia l’umanità più largamente e intensamente  attiva in e per lui stesso»: «Quindi non affogamento dell’io nel tutto, ma assunzione del tutto nell’io. Quindi attività non passività individuale. Libertà non scrupolosa riguardosità, imperturbabile coraggio dell’individuo che procede solo alla conquista dell’universo. Collaborazione sottomissione dell’individuo a leggi che lo trascendono sono concetti falsi per storta prospettiva, unica legge all’individuo è: aumentare se stesso per sé stesso».

Come mette in evidenza Anna Storti, nella prima pagina scritta dopo l’espatrio clandestino nel gennaio del 1915, dove Stuparich spiega la sua scelta e si rivela ancora incerto su quale strada prenderà nel futuro, Croce è un punto fermo, «resta ancora quello che dà da pensare, che ti muove il pensiero, che ti scuote in fondo!», anche se «oggi Croce è dell’Italia nostra, è germanofilo, non vuole la guerra, come la voglio, la devo volere io!». È un passaggio che lascia trapelare delle perplessità sulla soluzione bellica, un’antinomia che si risolve nei termini volontaristici e istintivi dell’azione più che di una ponderata e convinta riflessione, piegata dalla rassegnazione: il dubbio ci resta, anche perché in questo diario si parla pochissimo di politica.

Un’ulteriore attestazione della varietà di interessi di Giani e della sua autonomia rispetto agli altri vociani è l’attenzione nei confronti della “filosofia della vita” di George Simmel, autore ignorato dagli intellettuali fiorentini, molto letto in Europa tra le due Guerre e anticipatore dell’esistenzialismo.

Sono proprio l’eterogeneità di spunti e riferimenti intellettuali, la sperimentazione dal punto di vista stilistico e narratiivo, con l’inserimento di esperimenti di prosa e lirici, la condivisione di incertezze e dubbi continui, il lavoro in progress sulla scrittura, a rendere questo diario una testimonianza preziosa di un mondo che si sta formando, del travaglio interiore che dal caos della giovinezza porterà alla forma definita dell’età adulta, passando attraverso l’esperienza dolorosa ma formativa della guerra.

 

 

Giani Stuparich

Diario 1913-1915

a cura di Anna Storti

EUT Edizioni Università

di Trieste, Trieste 2022

  1. 211, euro 15,00