I ragazzini nelle altre parti del mondo

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Due libri di Francesco D’Adamo: Storia di Ismael che ha attraversato il mare e Storia di Iqbal

di Anna Calonico

 

Si parla tanto, nei giornali, in tv, nei social media, di cosa succede nelle altre parti del mondo. Si parla di problemi, si parla di disagi di popolazioni intere. È giusto parlarne, bisogna sapere. La televisione, di questi tempi, mostra sempre più spesso immagini forti senza pensare alla sensibilità dei più piccoli, ma è giusto che anche i ragazzini sappiano che il mondo non è soltanto quello della loro città: come fare?

Con un libro, per esempio.

Da alcuni anni ci pensa Francesco D’Adamo, nato a Milano nel 1949 da profughi istriani venuti in Italia dopo la Seconda Guerra, spesso premiato per i suoi testi che non considera “per ragazzi” ma “per adulti che hanno temporaneamente tredici, quattordici anni”. Per questo le sue storie sono così serie e impegnate e trattano tematiche moderne: il suo scopo è quello di far capire che nel mondo succedono tante cose brutte, tante cose ingiuste; cerca di predisporre i suoi lettori ad una certa empatia di cui molti adulti di oggi sono privi.

Prendiamo soltanto due delle storie di D’Adamo: Storia di Ismael che ha attraversato il mare, tragicamente e “politicamente” attuale, e Storia di Iqbal, che riprende un fatto realmente accaduto il cui protagonista è morto proprio il giorno di Pasqua del 1995. E non sto parlando del personaggio di un libro.

Ismael è figlio di un pescatore, conosce il mare, sa nuotare e ogni mattina compie lunghi tratti sulla barca tra le onde, fino a sera. Ma un giorno vicino al suo paese arrivano le ciminiere. Nessuno sa cosa siano, a cosa servano, soltanto Yves, che sa sempre tutto, ne parla: “Veleno. Veleno chimico.” “Cosa succederà?” “Il mare morirà. Il pesce morirà, noi moriremo.” “È la volontà di Dio.” “No, è la volontà degli uomini.” (p.18) A causa delle ciminiere che uccidono il pesce, le barche devono andare sempre più lontane da riva, e un giorno quella del padre di Ismael non torna più. Per lui non c’è altra possibilità di mantenere se stesso, la madre e le sorelle, se non quella di recarsi in un paese ricco, in Francia, di cui ha visto una partita una volta in tv, con quel giocatore, Zizou, che era uno di loro anche se era bianco, o in Talia.

Non è un romanzo molto movimentato: la maggior parte della narrazione si svolge su una barca malconcia, con un pazzo al comando che non sa neanche remare (parola di Ismael, pescatore), stipata all’inverosimile con uomini, donne, bambini, vecchi. È una notte di tempesta: gli altri sono tutti fermi, immobili perché se si muovono la barca oscilla paurosamente e chi è seduto sul bordo rischia di cadere in acqua. E poi perché hanno tutti paura, sono terrorizzati perché non hanno mai attraversato il mare, perché è buio pesto e non si vede nulla, e perché sta arrivando una tempesta, con il vento freddo e onde sempre più grandi. Ismael prova a girarsi e subito se ne pente: solo lui, che conosce il mare, sa che sta arrivando una tempesta molto forte e che quel mezzo di fortuna non potrà reggere l’impatto dei marosi. Solo Ismael sa che moriranno tutti. Allora pensa che vorrebbe scrivere una lettera alla madre, anche se lui non sa scrivere e lei non sa leggere. E quando negli squarci di luce del temporale si staglia la carcassa della grande nave partita appena prima di loro, divelta da uno scoglio e privata di tutto il suo carico umano, Ismael sa che manca poco anche per lui. Le pagine seguenti sono come le tante tristi immagini che vengono trasmesse sugli schermi delle nostre case, ma sono più forti, perché, invece del commento sterile ed ipocrita di una voce pagata per dire le solite banalità, le parole di D’Adamo, che poi sono le parole di Ismael che scrive alla sua mamma, sono piene di paura, di odori, di brividi, di acqua salata, di aria che si vorrebbe respirare, di altre mani che affiorano, di occhi sbarrati, di puzzo di piscio e mare e morte.

Ismael arriva in Talia, e allora scrive al padre, per ringraziarlo di averlo portato a vedere Zizou, e per dirgli che troppe cose sono cambiate da allora: Che cosa volevamo, chi lo sa? Volevamo tornare a casa nostra. Volevamo rimanere lì, in Talia, perché avevamo speso tutti i soldi e molti si erano indebitati per quel viaggio a cui avevamo affidato le nostre speranze e le nostre illusioni, perché avevamo rischiato la vita e tanti altri erano morti. (p.94) Il protagonista di questo libro appare taciturno fin dall’inizio, ma tra le pagine cambia, fino a diventare un essere introverso quasi muto, con troppi pensieri e brutti ricordi nella testa: Forse i pensieri da ragazzo erano la cosa che mi mancava maggiormente tra tutte quelle che avevo perduto. Era stato il mare a portarmeli via, e sapevo che non li avrei mai più ritrovati. (p. 74)

Provate a leggerlo come adulti che hanno avuto quindici anni, come Ismael: non vi riconoscerete.

Storia di Iqbal, invece, è paradossalmente piena di speranza e di buoni sentimenti: parla di un ragazzino pakistano di circa dodici anni che viene mandato a lavorare presso un padrone che possiede una fabbrica di tappeti. Insieme a lui ci sono altri bambini: Fatima, Maria, Salman, Karim, Alì, tutti costretti a lavorare dall’alba fino a sera, spesso legati con una catena al telaio, spesso puniti e mandati nella Tomba (una botola umida, senza luce e piena di insetti che pungono che rimane chiusa a volte anche per una settimana, senza aprirsi nemmeno per far passare del cibo o un sorso d’acqua). Tutto questo per pagare i debiti dei loro genitori, in un tremendo continuum che va di generazione in generazione senza che sia possibile interromperlo.

Invece si può, ci pensa la speranza, che in questa narrazione prende il nome, appunto, di Iqbal. Iqbal per primo si ribella al padrone, viene chiuso nella Tomba ma, per la prima volta, i bambini reagiscono e di notte vanno a portargli conforto e cibo. In questo modo divampa la speranza, fino a che Iqbal scappa e incontra Ehsan Ullah Khan, il salvatore suo e di tantissimi altri schiavi. È la storia di un piccolo Spartaco, è la storia di Iqbal Masih, che a dodici anni ha vinto numerosi riconoscimenti nel mondo, a partire dal Reebok Human Rights Award di Boston, per la sua lotta contro il lavoro minorile, e appena un anno dopo è stato ucciso dalla mafia dei tappeti. Cosa che non è mai stata provata, ma forse proprio per questo possiamo considerarla vera. La storia è narrata in prima persona da Fatima, personaggio inventato ma certo simile a qualche Fatima reale, che con Iqbal ha vissuto la schiavitù del telaio, l’esperienza della ribellione, i primi tempi di libertà a casa di Ehsan Khan, l’impegno per riuscire a salvare altri schiavi, la lotta, fatta spesso di insulti, minacce, paura, perfino bombe incendiarie, per portare avanti in Pakistan e non solo la loro campagna per l’abolizione della schiavitù minorile: Fino a quando ci sarà nel mondo un bambino privato della sua infanzia, picchiato, violato, nessuno potrà dire: non mi riguarda. Non è vero: riguarda anche voi. E non è vero che non c’è speranza: guardate me, io ho avuto speranza. Voi, signori, dovete avere coraggio. (p. 91)

Mi piacerebbe che questi libri venissero letti da molti ragazzi. Mi piacerebbe che poi questi ragazzi, scossi dalla lettura, facessero domande, si informassero. Mi piacerebbe che alzassero la voce durante un tg.

Forse, questi libri potrebbero allora insegnare anche ai grandi.

 

 

Francesco D’Adamo

Storia di Ismael che

ha attraversato il mare

De Agostini, Novara 2017

  1. 160, euro 9,90

 

Francesco D’Adamo

Storia di Iqbal

Einaudi Ragazzi

San Dorligo della Valle

(TRIESTE) 2008

  1. 160, euro 13,