L’ECLETTISMO LIBERTY DI ROMEO DEPAOLI

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architetturaIl palazzo Viviani Giberti del Sommaruga costituì, dal 1907, un modello di riferimento per molti architetti e costruttori operanti a Trieste. Il motivo è facilmente intuibile poiché, se dovessimo definire il liberty italiano con due sole opere architettoniche, la scelta cadrebbe inevitabilmente sul padiglione di D’Aronco per l’esposizione di Torino (1902) e sul palazzo Castiglioni di Milano (1903) che presenta notevoli affinità con la realizzazione triestina.

Sommaruga comunque non si limitò a utilizzare un vocabolario eterogeneo, ma trasse numerosi motivi di rinnovamento da un viaggio in Francia che gli consentì di superare il pedissequo ricorso ai linguaggi del passato. L’influenza franco-belga arrivò così anche in Italia contribuendo a superare il presupposto eclettico.

“Giovani architetti che amate l’arte […] ad eccezione del barocco studiate con cura amorosa tutti gli eleganti stili…” così scriveva Pietro Selvatico nel 1847, eppure sarà proprio il recupero del barocco e del rococò a suggerire nuove soluzioni agli architetti liberty. Il movimento dei panni gonfiati dal vento – a palazzo Viviani Giberti non può che rimandare al vorticoso moto berniniano; ma simili esempi rientrano ormai nella cultura europea tanto che riscontriamo notevoli analogie con le sculture della facciata della Stazione Centrale di Praga opera di Ladislav Šaloun.

A Trieste, un rappresentante significativo di questo moto di rinnovamento che tuttavia continua ad attingere ai repertori stilistici più disparati, è Romeo Depaoli, l’autore del progetto per il Palazzo Terni (noti ai triestini con il nome di “casa Smolars”), edificato fra le vie Mazzini, Dante e San Nicolò. Il progetto, approvato nel 1906, fu commissionato dal Terni e, similmente all’isolato del Sommaruga (viale XX settembre, via Brunner, via Gatteri), comprese ben tre edifici ognuno con ingresso indipendente, ma dotati di una continuità stilistica tale da indurre a credere che si tratti di un unico edificio.

Descritto in questi termini da un cronista triestino: “tra la via S. Nicolò e la via Nuova sta per sorgere un palazzo di dimensioni grandiose” (Il Piccolo, 1 settembre 1906) fu considerato dai triestini una bruttura. Alla luce di quanto sappiamo dell’accoglienza riservata a elaborazioni precedenti, non dovrebbe sorprenderci poiché subì giudizio analogo un edificio caratterizzato dalla sovrabbondanza di corpi aggettanti con forte effetto chiaroscurale: il Palazzo Municipale di Trieste (1875), opera del Bruni ultimata dopo un iter progettuale estremamente complesso.

Il giudizio negativo subito dal Palazzo Municipale ci permette di comprendere l’analogo rifiuto espresso dai locali per la “casa Smolars”, poiché anch’essa è assimilabile all’idea di “palazzo cheba” (così infatti era soprannominato il palazzo municipale), cioè di una gabbia sovrabbondante di strutture plastiche che tendono ad abolire la parete nella sua solidità privandola di quella “stabilità neoclassica” cara ai triestini. Soprattutto nella parte superiore la casa sembra rispondere, con le torrette, il loggiato trascorrente a colonne, balaustre e statue, anche a quei criteri architettonici sottolineati da Giorgio Padovan quando definì il municipio come un “palazzo di mandorlato”. Tutti questi elementi concorrono a delineare una struttura stilistica fra il lombardesco ed il barocchetto, mentre la connotazione liberty gli viene dal finestrone circolare con le statue, dal motivo floreale più volte ripetuto nel girasole e dalle pregevoli ringhiere in ferro battuto a viticci.

Nei singoli elementi architettonici l’edificio non è evidentemente paragonabile al Palazzo Municipale poiché quest’ultimo ricorre a motivi architettonici diversi (finestre codussiane, colonne e capitelli composte…), tuttavia osservando l’insieme riscontriamo come il Depaoli riproponga la medesima concezione strutturale della facciata elaborata dal Bruni.

Si osservi inoltre il sovrapporsi di elementi eterogenei che conferiscono all’insieme un aspetto bizzarro: la loggia continua dell’ultimo piano riprende quella del Sommaruga nel palazzo Viviani – Giberti ma viene amplificata sia nella profondità che nello svolgersi continuo, cosicché i tre edifici vengono unificati e serrati agli estremi da torrette angolari che hanno come modello la torretta di villa Lazarovich. Altrettanto sontuosa la decorazione scultorea; Romeo Rathman ne scolpisce due, drappeggiate dalla vita in giù, poste sopra il portone centrale, ed inoltre raffigura un uomo e una donna che sostengono sul tetto una ghirlanda appoggiata ad una lapide ove è incisa la data di ultimazione dell’edificio (1908).

Con il Rathman si attua il definitivo abbandono dei modelli di atlanti o cariatidi a cui il Pirovano si era ispirato per l’edificio del Sommaruga. Le sculture del Rathman trovano infatti maggiori analogie con quelle elaborazioni tipiche dello stile internazionale che ora faceva riferimento a Parigi, Vienna e Praga, ed in particolar modo allo “stile Mucha”, dal nome del disegnatore di affiches tipicamente art nouveau.

Lo stile del Depaoli è una sorta di “eclettismo liberty“. A tale riguardo si osservi come il basamento composto da ampie vetrate, forse suggerite dalla casa Bartoli di Fabiani, venga assemblato in maniera inedita alla parte superiore, estremamente sovrabbondante, creando un unicum nell’architettura triestina.

È doveroso ricordare uno degli esempi più efficaci del Liberty triestino: la casa Polacco sita all’angolo di corso Italia con via S. Giovanni (oggi via Imbriani). Secondo quanto riporta Il Piccolo del 6 settembre 1908: «il motivo architettonico e ornamentale assume, soltanto all’angolo smussato con taglio largo, una maggiore importanza, senza però rompere la propria unità armonica. Il pianterreno e il mezzanino sono semplicissimi, costruiti in ferro e pietra lavorata con leggeri bassorilievi a fondo dorato. Lo sviluppo dell’ornamentazione comincia appena al primo piano per divenire, a man mano si svolge verso l’alto, più complesso e più completo, concentrandosi infine, nella parte superiore dell’angolo, in un’opera plastica: due statue la cui modellazione è affidata allo scultore Rathman».

La parte pervia alla luce con enormi vetrate è molto più ampia che a palazzo Terni ed è riquadrata elegantemente da pilastrini in pietra lavorata. I medesimi modelli floreali sono ripresi nella balaustra delle scale interne. Se per palazzo Terni avevamo coniato la definizione di “eclettismo liberty” per il sovrabbondante utilizzo di partizioni architettoniche nella parte superiore, per casa Polacco possiamo parlare, soprattutto nella parte angolare, di un’autentica adesione allo stile art nouveau di tipo secessionista viennese, ed in particolar modo praghese.

Avevamo già evidenziato come le statue del palazzo Terni avessero legittimato dei rapporti stilistici con i modelli praghesi (“stile Mucha”), ma in questa seconda fase l’adesione non si limita al solo livello plastico, intervenendo proprio nella struttura compositiva. A causa dell’ubicazione dell’edificio, la zona angolare deve assumere la funzione di facciata principale cosicché viene elaborata autonomamente, mentre i due lati non sono architettonicamente rilevanti.

L’effetto scenografico è studiato in modo da attirare l’attenzione del passante che sale lungo il corso. Il basamento viene quindi “sacrificato” a magazzino secondo schemi già elaborati dal Broggi a Milano, mentre nella zona angolare si ergono possenti le due paraste che serrano il portale “alla Berlam”. Nel loro slancio verticale superano il balcone in forte aggetto – come a casa Righetti – per giungere alle due finestre tripartite sovrapposte, delle quali l’ultima, circolare, è racchiusa da statue che costituiscono il polo di attrazione visivo di tutto l’edificio. Lo sfruttamento direttrici verticali induce lo sguardo a scorrere visivamente tutto l’insieme fino al culmine plastico del Rathman.

Sarebbe sufficiente considerare questa soluzione angolare dell’edificio per conferire a Depaoli un posto di riguardo fra gli architetti liberty di Trieste.

La sua produzione non si mantenne comunque costantemente ad alti livelli, sebbene nei due palazzi del Borgo Teresiano avesse offerto delle interpretazioni personali del liberty dimostrando una notevole curiosità più che un’autentica innovazione. Così, nel 1913, intervenne su di un progetto del Righetti del 1911 probabilmente per sceglierne le partizioni decorative. Si tratta dell’edificio di abitazione di via San Giacomo in Monte n. 1, immediatamente riconoscibile per le decorazioni e in particolare per le finestre circolari rivestite a cotto con leoni alati o con coronamento a conchiglia. Le finestre circolari, tipiche della secessione viennese (J.M. Olbrich), furono spesso utilizzate nell’architettura liberty ed in Italia trovarono espressione originale con il Michelazzi che nel villino Lampredi (Firenze 1910) utilizza tanto le finestre a coronamento circolare che i draghi alati che sorreggono il balcone. In via San Giacomo in Monte invece i leoni alati sono inglobati nel piano di facciata serrando la finestra. In tal caso l’adesione a un repertorio decorativo non corrisponde all’accettazione di un linguaggio architettonico bensì è il tentativo di rinnovare superficialmente l’edificio e acclararne la sua modernità; una sorta di enunciazione semioticamente affine al chiosco di hot dog a forma di panino utile ad enunciare “hot dog qui!” (l’efficace esempio è di Tom Wolfe in From Bauhaus to our House). Molti costruttori ed architetti ricorsero infatti ad analoghi segnali per enunciare ai passanti che le novità di moda erano ivi presenti: una sorta di affiches con l’iscrizione “liberty qui!”.