Era notte ad Haarlem

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L’attentato, romanzo dell’olandese Harry Mulisch, ora ripubblicato da Neri Pozza

di Maria Grazia Ciani

 

Harry Mulisch è un nome poco noto in Italia. Tuttavia è tra i maggiori scrittori olandesi del secolo. è morto da dieci anni e oggi Neri Pozza ripubblica un suo libro già uscito nel 1986 per i tipi di Feltrinelli nella collana “L’avventura”.

Si potrebbe dire che è un libro ormai “vecchio” se non fosse per la scrittura secca, concreta, quasi cronachistica, per la trama leggermente tinta di giallo, ma soprattutto perché riprende il tema della memoria e dell’oblio, oggi così attuale e così discusso.

Siano dunque ad Haarlem, sobborgo di Amsterdam, nel  gennaio  del 1945. La guerra sta per finire, quasi tutta l’Europa è stata liberata, ma l’Olanda è ancora sotto il dominio nazista e la condizione del popolo è quella di molti altri paesi, divisi tra l’adesione al nemico e la muta sorda e ostinata resistenza partigiana. Il dramma, in tutta la sua crudezza, si svolge nel primo episodio: gli altri quattro, collocati in tempi diversi, costituiscono una specie di lenta, inconscia e intimamente rifiutata rivisitazione di quell’episodio che riaffiora a tratti nella memoria del protagonista, come un sogno, come un incubo, come una risonanza attutita dal tempo ma dalla quale non riesce  a liberarsi.

L’azione, come ho detto, è tutta nel primo episodio. Ad Haarlem, nel raggio ristretto di quattro casette dai nomi romantici – residuo di un progetto più elegante, mai portato a termine – è buio pesto. Fa freddo, il riscaldamento è stato tolto, una cappa di fame, freddo e paura incombe sulle case. La famiglia Steenwijk – padre, madre e due figli, Peter di 17 e Anton di 12 anni – è riunita nell’unica stanza riscaldata e abitabile nel retro della casa. Il silenzio, totale, opprimente, è rotto da sei spari a intervalli. Sbirciando attraverso le tende del salotto sul davanti della casa, Peter e Anton riescono a vedere il corpo di un uomo che giace sulla neve davanti alla casa dei loro vicini: Peter esce e accorre. è Fake Ploeg, ispettore capo di polizia ed efferato assassino del suo popolo. I partigiani l’hanno giustiziato. Non senza conseguenze, com’era naturale a quei tempi. Ma avviene un fatto inatteso: dalla casa vicina escono gli abitanti, un padre e una figlia, e trasportano il corpo di Ploeg davanti alla casa degli Steenwijk.  Mentre i genitori sono paralizzati dal terrore, il giovane  Peter si ribella al sopruso e di nuovo corre fuori per ritrasportare il corpo dov’era. Troppo tardi. Stanno arrivando i tedeschi. Fuori di sé, Peter afferra la pistola di Ploeg e si precipita nella casa dei vicini: vuole punirli, fare giustizia, non si sa. Né si saprà più nulla di lui fino a guerra finita. Il seguito è il convulso succedersi della più cruda rappresaglia: un gruppo di ostaggi presi a caso, i genitori di Anton sono fucilati sul posto, di Peter ancora non si sa nulla, Anton viene allontanato , rinchiuso in un’auto tedesca e di lì assiste all’incendio della sua casa , ma per fortuna non alla morte dei suoi, portati altrove per essere uccisi. Ora incomincia il  suo personale calvario, i tedeschi non sanno cosa fare di lui, finisce rinchiuso in una cella dove trova una donna ferita, una partigiana che cerca di confortarlo, poi viene tolto di lì, passa da un luogo all’altro, intontito, affamato, ancora incerto sulla sorte dei suoi, viene messo su un  camion diretto ad Amsterdam ma subisce un attacco aereo, infine, giunto ad Amsterdam, lo raccoglie lo zio, fratello di sua madre, che lo porta via con sé («Vieni, Anton, via di qua»). è finita.

Siamo a pagina 54 e questo è il prologo. «Il resto è solo epilogo», scrive l’autore. Si può dire che, nella sventura, Anton ha fortuna: è molto giovane, gli zii, che non hanno figli, lo accolgono come un figlio, cresce nell’agio. Lo ritroviamo studente nel secondo episodio. Naturalmente ha saputo della morte dei suoi e più tardi anche della morte di Peter, ucciso quella sera stessa nella casa dei vicini, i Korteweg. Ma le notizie gli giungono come da un’epoca lontanissima, brandelli di memoria da cui egli rifugge e che invece continuano a ripresentarsi in una serie di incontri fortuiti, che lo riportano a quel passato sepolto, e per quanto egli faccia per ignorarli e per rimuoverli, si ripresentano subdolamente come reazioni fisiche inaspettate e lo costringono a ricordare.

Nell’unico suo ritorno ad Haarlem per la festa di un amico, non può evitare l’incontro con gli antichi vicini di un’altra delle villette, e le pur brevi reminiscenze della signora Beumer («Quel tesoro di Peter… I tuoi cari genitori… quello che non hanno dovuto patire… Quando tua madre si avventò contro quel tipaccio… fatti fuori così, come bestie») lo colpiscono come una scarica elettrica e lo inducono a prendere subito congedo giurando a se stesso di non rimettere mai più piede ad Haarlem.

Il confronto con il figlio di Fake Ploeg (che era stato suo compagno  di scuola) è una discussione tesa e unidirezionale in cui ciascuno rivendica la “sua” giustizia («I miei genitori erano innocenti»; «Anche mio padre lo era»). è chiaro che per Fake figlio il padre era dalla parte giusta, nonostante fosse responsabile di atroci torture. E Anton non riesce a capire perché non si possa amare comunque un padre ammettendo i suo errori. Per il giovane Fake non esistono errori: solo uno sbaglio del destino ha coinvolto la famiglia di Anton. Dal confronto Anton esce confuso, apparentemente sconfitto (il sasso scagliato da Fake che manda in frantumi lo specchio della stanza di Anton è un segno che la violenza non finisce mai).

Anton si lascia vivere. «Anche riguardo all’amore, lasciò che le cose seguissero il loro corso». Si sposa, ha una figlia e un giorno, ai funerali di un amico del suocero, in cui si ritrovano quasi tutti gli ex partigiani con il loro nome di battaglia, sente una frase pronunciata nettamente in una pausa di silenzio «Gli sparai prima alla schiena, poi alla spalla e al ventre, mentre gli stavo passando accanto in bicicletta». Ed ecco che «nel tunnel del passato» Anton sente rintronare di nuovo quegli spari e non può fare a meno di rivelarsi all’uomo che ha parlato, colui che ha “giustiziato” Ploeg, il responsabile della morte dei suoi. Ma quello che emerge dal concitato, lungo dialogo con Cor Takes, tale è il nome dell’ex partigiano, è un ricordo che unisce anziché separare i due uomini, un ricordo sfocato, immerso nel buio di una cella, una dolce voce di donna, il tocco di una mano sul viso che lascia tracce di sangue: è questo che Anton rievoca a un tratto e comprende che questo episodio,  quasi una pausa nell’orrore, è rimasto sepolto per riemergere come il più importante nella terribile tragedia che ha vissuto. La donna di cui non ha visto nemmeno il volto, nel buio assoluto della cella, la sua voce, le sue parole, il suono della sua voce lo hanno  inconsciamente condizionato per tutta la vita. E quella donna era l’amante di Cor Takes, colei che insieme a lui ha sparato a Ploeg e ne è stata colpita. Ed è la sua tomba che egli andrà a cercare, di lei che fu fucilata tre settimane prima della Liberazione.

Un poco alla volta sono i ricordi a prendere forma, come quando in età avanzata il passato a un tratto si fa più limpido mentre il futuro si sgretola un po’ alla volta. La crisi che stravolge Anton in un pomeriggio di riposo e di quiete («si levò una montagna grigiastra, come un’ondata di marea e si abbatté su di lui») è la massa sepolta del non detto, della volontà di dimenticare che lo soffoca all’improvviso e lo muta per sempre, anche se in superficie la vita continua come prima, il tempo passa, i fatti accaduti si trasformano, si banalizzano addirittura, si può tornare ad Haarlem, si può rivedere il luogo dov’era una volta la casa… Anton dice basta alle commemorazioni («Basta con tutte queste scemenze… Non voglio più sentirne parlare»).

Ma la memoria negata ritorna nell’ultimo incontro che non narrerò e che lascia Anton interdetto e ancora una volta senza parole.

Tuttavia la conclusione di Mulisch è anch’essa una negazione della memoria e per questo appare provocatoria: «Ma cosa importa? è tutto dimenticato. Le grida si smorzano, le onde si placano, le strade si svuotano, e ritorna il silenzio». Queste parole che chiudono il libro stranamente si riallacciano all’inizio, quando, nel silenzio ancora intatto della casa degli Steenwijk, il padre legge un brano di Omero tradotto da Peter: «Al pari dei fiumi che, enfiatisi a causa della pioggia e della neve ormai sciolta, scendono fragorosamente dalle catene montuose e riuniscono nel comune bacino giù a valle le loro imponenti masse d’acqua… – e molto lontano fra i monti il pastore ode il loro assordante frastuono: così risuonarono il clamore dei soldati arrivati a lottare a corpo a corpo e il fragore delle armi». Il padre , entusiasta, commenta: «Non ti sei accorto di come  l’autore evoca la natura, indirettamente, con la similitudine? A restarti in mente non sono i soldati che lottano, bensì il quadro della natura – e questa vive tuttora. La battaglia è scomparsa, ma i fiumi sono restati, li puoi sentire tuttora, e tu sei il pastore». L’interpretazione è perfetta, Omero apre lo spiraglio su un mondo che, dopo ogni sconvolgimento, riprende ad esistere, ad ogni stagione rinasce, la vita della natura, benché offesa, si rigenera, continua. Torneranno a fiorire i prati, ha detto Ermanno Olmi.

Ma le anime ferite non rifioriscono, la memoria offesa non dimentica. Il corpo stesso di Anton si ribella alla sua volontà di oblio.

Per molto tempo la memoria è stata soffocata, distorta, deturpata. Oggi è il tempo del ricordo, tutto il non detto si rivela, nessuna negazione è permessa, si parla a costo della vita. Le pietre d’inciampo sono ad ogni passo, impossibile evitarle. E se leggiamo il libro di Mulisch in controluce, arriviamo alla stessa conclusione: il ricordo ha segnato Anton come un fiume carsico, cogliendolo quasi alle spalle e costringendolo, suo malgrado, a riannodare i fili della sua esistenza intorno a quell’infanzia che lo ha segnato per sempre.

 

Riquadro:

 

Harry Kurt Victor Mulisch (Haarlem, 29 luglio 1927 – Amsterdam, 30 ottobre 2010) è stato uno scrittore, poeta, drammaturgo e saggista olandese. Insieme a Willem Frederik Hermans e Gerard Reve, è considerato uno dei «Tre Grandi» della letteratura olandese del dopoguerra. Ha scritto opere teatrali, saggi, poesie e romanzi, tra i quali un posto di rilievo spetta certamente a La scoperta del cielo (1992).

 

 

Harry Mulisch

L’attentato

Neri Pozza 2021

traduzione di Gianfranco Groppo

  1. 240, euro 18,00