Esistenze problematiche di qua e di là dell’oceano

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Captain fantastic, di Matt Ross – È solo la fine del mondo, di Xavier Dolan

Il medico di campagna, di Thomas Lilti – Aquarius, di Kleber Mendonca Filho

 

di Gianfranco Sodomaco

 

 

La sala è affollata, sicuramente c’è stato un passaparola. Perché? Perché il regista, Matt Ross, furbo, ha avuto un’idea accattivante, ha capito subito che quella storia sarebbe piaciuta al grande pubblico (che non è sempre una buona idea, anzi quasi mai). Raccontiamola in breve, per quanto possibile, la storia del Captain Fantastic, premiato all’ultimo Festival di Cannes. C’è un padre, Ben, in un’America periferica, quasi ‘forestale’, che alleva, da ‘allevamento’, sei figli in modo naturalistico, i ragazzi, dal più grande alla più piccola, assistono all’uccisione di un cervo (così inizia il film), poi è tutto un susseguirsi di sorprese: imparano a scalare la montagna, seguono corsi autogestiti di filosofia e fisica quantistica, si confrontano con le lingue straniere e, dulcis in fundo, festeggiano il compleanno di Noam Chomsky, celebre linguista e filosofo americano, famoso per le sue prese di posizione di avanguardia, anticapitalistiche, di sinistra ecc. E c’è anche un esproprio proletario eseguito in un supermercato. Che dire? È stata una scelta didattico/pedagogica non solo del padre, ma presa assieme alla madre che però, ad un certo punto, si è ammalata gravemente di una forma di psicosi fino al punto da suicidarsi. Il padre dà la notizia ai figli ed è qui, ma c’era da aspettarselo, che nascono i problemi. I figli, che hanno un bel ricordo della madre, vogliono partecipare ai suoi funerali. Ben sa che non sarà una cosa semplice ma, coerente con la sincerità massima con cui li ha trattati, accetta e partono per il paese della casa dei nonni, dove la salma della donna è stata trasportata. L’impatto/incontro con i nonni, i genitori della madre, c’era da aspettarselo, è drammatico. Sono anni che la famiglia non si vede, il nonno comincia subito ad aggredire Ben per il modo con cui ha educato quei ragazzi. Ben, per tutta risposta, in chiesa, con tutta la famiglia, praticamente tutti ‘travestiti’, fa un intervento davanti alla bara della madre dicendo che la donna era buddista, che aveva lasciato l’incarico, alla sua morte, di essere cremata e che le sue ceneri venissero sparse in mare. Ed è quello che Ben fa, dopo il funerale, dopo aver, letteralmente, trafugato, riesumato il corpo dalla terra, inscenando alla fine una sorta di rito funebre tra canti e balli. Siamo ormai all’epilogo: dopo un momento di ripensamento da parte del padre sul suo metodo educativo (un ripensamento c’è stato anche da parte di uno dei figli), la famiglia torna a riunirsi e insieme festeggiano il fratello più grande che, finalmente, parte da solo per l’Università. Che dire? Certa critica ha sottolineato, in modo scontato, l’originalità della storia, la contrapposizione tra una visione (oserei dire una visionarietà) anticapitalistica, quella di Ben, e un formalismo/dogmatismo tipicamente yankee, quello del nonno: io, alla fine,     non ero per niente convinto del presunto ‘realismo’ del film, troppo ‘fantastiche’, appunto, molte scene che, anche psicologicamente, lasciano piuttosto perplessi. Peccato, l’idea iniziale poteva essere anche buona, nella realizzazione il regista si è fatto prendere la mano.

Passiamo a È solo la fine del mondo, di Xavier Dolan, giovane regista canadese che, da tempo, ci ha abituati a piccoli capolavori come Mommy, Premio della giuria al festival di Cannes di due anni fa. La storia.

Un giovane scrittore di successo, Louis (Gaspard Ulliel), dopo un lungo periodo di assenza torna dai suoi familiari, in Canada. Il motivo è drammatico: gli resta poco da vivere. Dopo aver seguito le sue inclinazioni (è un omosessuale) sente il bisogno di parlare di ciò che sta vivendo con la madre (Nathalie Baye), la sorella (Léa Seydoux), il fratello (Vincent Cassel) e anche la moglie del fratello (Marion Cotillard). Ma il clima che trova in famiglia non è dei migliori. La mamma è legata a quel figlio ma è una chiacchierona e, in fin dei conti, gli rimprovera quella lunga lontananza. La sorella, Suzanne, lo invidia e non riesce a intrattenere con lui un rapporto sereno per il fatto che… pure lei vorrebbe scappare da quel ‘groviglio d’anime’. Ma chi esercita una vera e propria violenza psicologica su tutti, non solo su Louis, è il fratello Antoine: segnato da un grosso complesso d’inferiorità aggredisce chiunque gli si avvicina e, com’è scontato, non sopporta che Louis sia stato più fortunato, sia diventato un uomo di successo. Chi rimane al nostro scrittore, a chi può rivolgersi per rivelare il suo segreto, per liberarsi dal pensiero che lo attanaglia e che, già poco ciarliero, è indotto sempre più al silenzio dall’atteggiamento dei familiari? Gli resta Christine, la moglie di Antoine che, proprio perché non fa parte della ‘famiglia di sangue’, non ha nulla da rimproverare a Louis, anzi: già distrutta psicologicamente dal marito è la sola ad essere attratta dal suo silenzio, ad intuire che quell’uomo, l’esatto contrario del coniuge, è portatore di un qualcosa di inconfessabile (e che, infatti, non riuscirà a svelare: solo “la fine del mondo”?) da meritare dunque tutta la sua empatia, solidarietà. Dolan ha tratto la storia da una pièce teatrale di Jean Luc Lagarce e l’origine si sente durante la visione del film, ma a lui non importa, tanto è preso dal gioco dei primi piani, dalla ricchezza dei dialoghi tutta giocata su ambienti ‘interni’ al punto da diventare soffocanti, claustrofobici. Sicché, lavorando magistralmente sul linguaggio, ogni personaggio diventa indimenticabile e il film una sequela di attori francesi di rango internazionale, scelti non a caso e capaci di lasciare una traccia indelebile con la loro partecipazione. Da vedere, altro ‘piccolo capolavoro’ a cui Dolan ci aveva già abituato. Anch’esso Grand Prix della Giuria al Festival di Cannes.

Dopo che vieni a sapere che il regista di Il medico di campagna, Thomas Lilti, è stato un medico, tutto diventa più chiaro ma il film francese mostra anche tutti i suo limiti. Diventa più evidente l’origine autobiografica, più ossessiva l’insistenza, la ripetitività, con cui ci mostra le stesse situazioni, le stesse problematiche, se vogliamo l’unico problema: quel mestiere è un mestiere difficile e non v’è che un modo per affrontarlo: coltivare il rapporto col paziente fino all’eccesso ed evitare fino al limite estremo il suo ricovero in ospedale. Ma c’è un motivo profondo, che lo spettatore conosce fin dall’inizio, che spiega ulteriormente questa scelta: il nostro ‘eroe’ (il cinquantenne Jean Pierre, Francois Cluzet) è malato pure lui, ha un tumore, ma questo non gli impedirà di andare fino in fondo col contratto che ha stabilito con i suoi malati, con i suoi paesani. Non basta. Quando gli viene assegnata dal suo medico curante, un oncologo, l’ assistente, una giovane dottoressa (Nathalie, Marianne Denicourt) la rifiuta, non vuol saperne di aiuti che potrebbero interferire con la sua attività e con il suo modo di concepire il suo mestiere. Ma, ad un certo punto, comprende che deve accettare il suo aiuto, che ci sono nuovi pazienti che accettano nuove forme di intervento. Si va avanti così, tra alti e bassi, ma senza che il film prenda quota anche se si fa apprezzare per l’interpretazione del ‘duetto’. E poi, senza dubbio, il film ha il merito di sollevare un tema non da poco se pensiamo che oggi, in grande maggioranza, la figura del medico è soprattutto quella di un tecnico somministratore di farmaci mentre il paziente ha bisogno soprattutto di una rassicurazione psicologica, ‘umanistica’. Peccato, certamente un’occasione mancata.

Non resta che passare ad Aquarius, un film di ben altro respiro. Siamo in Brasile, sulla spiaggia di Recife e la protagonista ‘totale’ è Clara (la mitica Sonia Braga, ormai sessantacinquenne, ma ancora uno splendido, indimenticabile ritratto di donna, interprete di film come “Donna Flor e i suoi due mariti” tratto da un romanzo di Jorge Amado e di tante telenovelas degli anni Settanta e Ottanta). Clara, vedova, pensionata, critica musicale e cresciuta in un’agiata famiglia di Recife, in esito a un prologo che la vede giovane e circondata dalla sua famiglia, dopo che ha perso il marito e attraversato gravi problemi di salute, vive ora da sola nell’appartamento di famiglia, in una casa abbandonata, una costruzione originale a due piani costruita nel 1940, ‘Aquarius’ appunto, perché gli inquilini hanno venduto le loro proprietà ad una società di palazzinari che vuole radere al suolo l’area per costruire ex novo. Clara non ha accettato di lasciare quell’abitazione che ‘parla’ troppo di tutti i ricordi legati ai suoi cari, ormai scomparsi e che lei lascerà solo alla sua morte. Da qui una lotta quotidiana contro i costruttori che darà ancora più forza alla sua esistenza e senso alla sua famiglia e alla sua vita, tra passato, presente e futuro. Tutto il film è incentrato sulla sua figura, ma nessuna ‘santificazione’, solo la sua quotidianità ricca e molteplice, tra cui: il rapporto con i figli che tentano di bypassarla nel rapporto con gli speculatori edili; le visite ai parenti; le uscite con le amiche per andare a ballare; le sue nuotate nel mare, affacciato sul lungomare ‘Avenida Boa Viagem’, in compagnia del guardaspiaggia; il rapporto con un gigolò, ma niente di più, un po’ di sesso con un giovane amico di famiglia e poi… musica, tanta musica (splendida la colonna sonora), altro amore della vita di Clara che le impedisce qualsiasi tipo di noia (e lo spettatore ne è coinvolto) e ne fa, col passare delle giornate e degli incontri, un personaggio femminile sensibile ed indomito, fiero e combattivo, amabile. Si potrebbe quasi dire, oltreché madre, un’intellettuale, una guerriera che si batte fino all’ultimo per difendere la sua proprietà ma anche i diritti dei ‘rimasti’ contro la prevaricazione neocapitalistica, non solo, per liberarsi della frustrazione a causa delle ingiustizie subite.

Il regista, Kleber Mendonca Filho (in concorso a Cannes ’69), nell’opera seconda di un giornalista divenuto cineasta ha colto nel segno, coniugando la storia di Clara con quella di un Brasile ricco di ombre ‘sociali’. Aquarius, a suo modo, è un film certamente politico, perché riflette sulla trasformazione urbana, sulle relazioni sociali e l’eredità degli anni Settanta in un paese che vive contraddizioni fortissime, tra ricchezza e povertà (le indimenticabili ‘favelas’), che è diventato, negli anni recenti, una delle nazioni più importanti del mondo (basti pensare al richiamo esercitato dalle ultime Olimpiadi), che ha un suo indubbio fascino (la musica, il gioco del calcio ecc.), ma che sembra vivere una perpetua oscillazione tra esultanza e sgomento, una crisi culturale e spirituale sempre alle porte: ebbene, Aquarius restituisce queste sensazioni, questi sentimenti in ogni momento attraverso l’avventura (come chiamarla in altro modo?) di Clara, una donna, una persona difficilmente dimenticabile, già un ‘mito’ che resterà, ne sono certo, nella storia del cinema brasiliano.

 

Segnalo l’uscita dell’ALMANACCO DEL CINEMA DI MICROMEGA, incontro con una trentina di registi tra cui: Lizzani, Monicelli, Rosi, Montaldo, Paolo e Vittorio Taviani, Cronenberg, Malick, Cimino, Coppola, Lynch, attraverso interventi, interviste ecc.