La satira di Billy Wilder al Trieste Film Festival

| | |

di Stefano Crisafulli

 

Il Trieste Film Festival compie trent’anni e festeggia la ricorrenza assieme ad un evento cardine della storia europea novecentesca: la caduta del muro di Berlino, avvenuta, appunto, trent’anni fa, nel 1989. Da allora non solo la Germania, riunificata come la sua città-simbolo, ma l’Europa intera non è stata più la stessa: finita la Guerra Fredda, il capitalismo trionfante non ha saputo, però, dare risposte a tutti coloro che, dall’altra parte della cortina di ferro, avevano sperato in un’epoca di maggior prosperità per tutti. Invece la ricchezza è rimasta sempre in mano ai soliti noti e il welfare, orgoglio delle democrazie europee, si è sbriciolato sotto i colpi del turbocapitalismo successivo.

Ad ogni modo il Trieste Film Festival numero 30 ha voluto celebrare degnamente l’evento storico della caduta del muro con una sezione apposita di film, dal titolo: ‘Racconti dal muro di Berlino’. Dal cappello a cilindro di questa sezione sono uscite alcune perle, una delle quali porta la firma di Billy Wilder: One, two, three (Uno, due, tre!), uscito nel 1961, proprio l’anno d’inizio della costruzione del muro, e ambientato a Berlino, sua città d’adozione. Billy Wilder si chiamava infatti Samuel Wilder quando si trasferì negli Stati Uniti nel 1933, a causa dell’ascesa del nazismo. In seguito ebbe grande successo a Hollywood con pellicole rimaste nella storia del cinema, come Some like it hot (A qualcuno piace caldo) del 1959 o The Apartment (L’appartamento) del 1960. Certo, One, two, three non è all’altezza dei capolavori appena citati, ma non andrebbe nemmeno sottovalutato. E infatti non a caso è stato recuperato dal festival triestino e proiettato sul grande schermo del Rossetti domenica 20/1.

La storia è quella di MacNamara, direttore della sede di Berlino Ovest di un’azienda nota, già allora, in tutto il mondo: si tratta della Coca Cola. Inutile censurarne il nome, visto che è un prodotto che simboleggia gli Stati Uniti più di quanto faccia il Camembert con la Francia o il Chianti con l’Italia. MacNamara, interpretato da un James Cagney in splendida forma, da buon carrierista vorrebbe la promozione per esser riuscito ad ampliare il mercato della celebre bibita in URSS, ma nel frattempo ha una brutta gatta da pelare: la figlia del capo vuole visitare Berlino e lui è costretto a tenerla d’occhio. Lei lo ripaga sposando un giovane e convinto comunista di Berlino Est, conosciuto in seguito a ripetute fughe notturne oltrecortina. Come se non bastasse, il suo capo sta arrivando a Berlino e la moglie scopre le sue numerose scappatelle extraconiugali con la segretaria. Insomma, un intreccio tipicamente da commedia americana, dal ritmo forsennato (a tratti pure troppo), che si risolverà in un inevitabile lieto fine. Ma ciò che affascina è la cospicua quantità di battute satiriche lanciate a raffica, con l’obiettivo di colpire entrambi i poli contrapposti: il capitalismo USA, che si comporta da padrone in terra straniera e con le proprie mogli (quella di MacNamara risponde spesso in tono ironico al marito: ‘Sarà fatto, mein Fűhrer’) e il comunismo sovietico, rappresentato da tre uomini dell’apparato che si dimostreranno piuttosto attratti dal fascino dell’Occidente, incarnato nella segretaria di MacNamara. In mezzo c’è una Germania divisa, impoverita e distrutta, anche moralmente, dalla guerra, ma non ancora pienamente disintossicata dalle scorie del nazismo, tanto che Wilder, con impietoso sarcasmo, fa battere i tacchi ai dipendenti tedeschi dell’azienda ogni volta che passa il direttore.

Non viene risparmiato nulla a nessuno, dunque, ed è questa la forza di un film che si porta dietro, in un breve episodio ‘en travesti’, la trovata vincente di A qualcuno piace caldo, ma che non riuscirà a riscuotere lo stesso successo. Anche perché, forse, troppo feroce e in anticipo sui tempi.