Tullio Pericoli La bella vita del critico d’arte 17

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di Giancarlo Pauletto

 

 

«La prima cosa che vorrei sapere, incontrando un altro volto, è se la persona cui il volto appartiene mi sarà amica […] La faccia è anche il risultato di un rapporto sociale […] La simulazione, per quanti sforzi si facciano per dissimularla, si incide sulla faccia. E si rivela […] Il volto viene formato dal di fuori, come dal di dentro. Persino il silenzio lo forma […] La faccia è un’autobiografia sintetica con la quale ci presentiamo in ogni occasione, sapendo di esporci a un’indagine che passa attraverso di essa […] Un libro importante cambia chi lo ha scritto […] Pensiamo a Beckett: credo veramente che la sua faccia sia stata modellata anche dai suoi scritti».

Pensieri, questi che cito, pubblicati in un libretto Bompiani del 2005 in cui Tullio Pericoli rifletteva sulla sua attività di ritrattista, e che importa molto leggere se fanno da introduzione ad una mostra di volti di Samuel Beckett: che ebbe luogo presso il teatro Verdi di Pordenone alla fine del 2006, e io la recensii a gennaio 2007 sul periodico Il Momento, scrivendo tra le altre cose: «Ecco dunque il tema di Pericoli, rispetto a Beckett: far trasparire dal ritratto – che deve essere anzitutto preciso sul piano fisionomico – anche la vertiginosa indagine che lo scrittore conduce sull’essenza dell’esistere, una solitudine che invano lotta contro il proprio destino di annientamento. E in effetti “vertiginosi” sono i carboncini, tutti, che Pericoli dedica al volto dello scrittore. Per una capacità di lettura che entra nelle pieghe della fisionomia, e che ora traduce l’interiorità psicologica in una elettrica superficie subito ridefinita dalla profondità degli occhi, ora la rassoda in una più densa corporeità, dentro la quale sempre gli occhi sono il segnale di uno scavo indagatore che non si ferma davanti all’apparenza, che ha deciso una volta per sempre il suo coraggio di andare a fondo.

A costo di trovare, nel fondo solo pietra e disperazione. E “petrosi” sono, infatti, gli olii dedicati al volto dello scrittore. In particolare quello di profilo, giocato su una sensibilissima serie di grigi che si compattano in una ruvida solidità di scultura, e traducono l’idea di una sfinge che trattenga, all’interno dei suoi occhi serrati, pensieri di desolata, inappellabile verità».

La recensione – di cui ho riportato un passo – mi procurò una delle maggiori soddisfazioni della mia, chiamiamola così, carriera di critico perché, circa un mese dopo, mi arrivò, datata Milano 14 febbraio 2007, questa lettera:

«Gentile signor Pauletto.

Ho avuto in ritardo la sua recensione ai miei ritratti di Beckett e il suo testo mi è parso molto bello. Ne sono lusingato per le sottili osservazioni e per la partecipazione che ho sentito.

La ringrazio di cuore e le invio i miei più cari saluti.

Tullio Pericoli».

Queste righe occupavano la prima metà di un foglio quadrato.

La seconda metà era – ed è – occupata da un ritratto di Beckett schizzato a penna, fermato sotto gli occhi scrutatori, bellissimo e per me prezioso.

Ora spero che nessuno mi accusi di eccessivo narcisismo.

Anche Tullio Pericoli – se mai verrà a sapere – mi perdonerà.

Il fatto è che i critici di provincia sanno benissimo che il numero di quelli che leggono i loro scritti è molto vicino allo zero.

Gli scalzacani di provincia non hanno l’audience dei menarrosti di città

Dirò anzi di più: a volte gli stessi artisti mostrano un interesse assai limitato per quello che di loro vien detto – magari a ragione, non dico di no.

I critici, insomma, sono più che altro un male necessario, nessuno sa bene perché necessario, credo neanche la maggior parte dei critici stessi.

Io invece, immodestamente magari, credo di saperlo, ma non starò qui a disquisire.

Così, se uno viene apprezzato da un artista come Tullio Pericoli, è appena umano che gli si permetta di farlo sapere a qualcun altro.

Spero siate d’accordo.

 

 

1.

Tullio Pericoli

Samuel Beckett

matita su carta

da L’anima del volto

Bompiani, 2005