“Senza essere uditi da nessuno”

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Tracce di un’amicizia poetica nel carteggio tra Caproni e Sereni

Lorenzo Tommasini

È da poco uscito per l’editore Olschki il Carteggio tra Giorgio Caproni e Vittorio Sereni, curato da Giuliana Di Febo-Severo. Si tratta di una importante novità che darà nuovo materiale di riflessione agli studiosi e agli appassionati di questi autori, ma che sarà un’inestimabile fonte anche per ricostruire il clima culturale del secondo Novecento italiano, di cui i due poeti sono tra gli indiscussi protagonisti. Il corpus delle lettere si presenta, per definizione della stessa curatrice, «mutilo e saltuario – intervallato cioè da momenti di silenzio anche pluriennali» (p. 4). È questa la prima caratteristica che balza all’occhio del lettore. Le lettere, in verità non moltissime, proposte in questo volume sono diradate nel tempo al punto che è abituale trovarvi, sia da parte di un autore che dell’altro, le scuse per il ritardo con cui si risponde. Ma questo non è sintomo di freddezza, anzi, proprio la loro rarefazione permette che nel momento della scrittura sia espressa una maggior intensità d’affetti, testimoniata esplicitamente a più riprese: «La nostra amicizia è franca, anche nel bel senso di affrancata e libera, senza interessi pratici e perciò senza sconti: perché dunque dubitarne?» (p. 147).

L’occasione per l’avvio dello scambio epistolare è data da un’iniziativa editoriale spagnola in cui entrambi vengono coinvolti nel 1947. Da questo momento il dialogo si intreccia costantemente, facendoci vedere la stima reciproca che si mantiene e accresce nel tempo e una vicinanza non solo umana, ma anche e soprattutto poetica. Non c’è libro dell’uno che non venga donato all’altro con gentili dediche e spesso la poesia dell’amico si legge avidamente con emozione e trepidazione come avviene a Sereni che, nel 1965, avuta una copia del Congedo del viaggiatore cerimonioso comunica immediatamente a Caproni: «Letto e riletto subito le tue nuove poesie. Deliziandomene e disperandomene. Non capisco come non si possa, non si debba averne gioia ed esserne feriti quasi insieme» (p. 168). È l’espressione di un sentimento ambivalente che ritroviamo anche a parti invertite quanto Caproni riceve Gli strumenti umani: «Sto leggendolo, pagina per pagina, con quell’indicibile trasalimento che sempre, nel profondo, mi ha dato la tua poesia» (p. 170). I libri dell’amico sono anche il confronto costante che si tiene presente nel valutare i propri, talvolta con un senso di scoramento e desiderio davanti ai migliori risultati dell’altro, come testimoniato nuovamente dalle parole di Caproni: «Io ti invidio (ma è una sana invidia) come si invidia la vita vera. Tu puoi anche non scrivere più una parola, perché il tuo conto con la poesia lo hai già pagato, beato te. Io invece devo ricominciare sempre da capo» (p. 146).

Si capisce bene quindi come queste lettere per i due corrispondenti, che abitano in città diverse e che raramente riescono a vedersi di persona se non nella confusione di qualche premio letterario, vogliono essere esplicitamente il luogo dell’apertura e della confidenza intima, come lascia intendere ancora Caproni in una delle sue prime lettere dove vengono precisati i termini in cui auspica si possa svolgere il loro rapporto epistolare: «A me piacerebbe tanto un discorso aperto con te, senza essere uditi da nessuno» (p. 115).

Da tale tipo di rapporto nascono anche importanti recensioni e prose critiche in cui i due poeti trattano l’uno dell’altro. In queste occasioni non mancano di mandarsi i propri saggi a vicenda e di discuterli per lettera. Così fa ad esempio Caproni con il Diario d’Algeria, definendo il proprio articolo come la prima recensione «ch’io scriverò per amore, senza bestemmiare contro il destino che, per terribili ragioni di economia domestica […] mi costringe ad atti impuri» (p. 114). Tra le varie occasioni, la più significativa è probabilmente la lettura radiofonica che Sereni svolge a Radio Monteceneri nel 1976 all’interno di un ciclo di dieci lezioni su poeti italiani e stranieri. In questa circostanza non manca di testimoniare con una convinzione non comune il suo entusiasmo per la poesia dell’amico: «Una volta che si sia aderito a quel poeta e ai suoi modi, non sembra essercene un altro all’infuori di quello né altra possibilità di fare poesia. Una valutazione del genere è senz’altro acritica ed empirica ma rende bene un certo stato di emotività nato dalla frequentazione sempre più convinta di un testo poetico, e si applica benissimo al caso di Giorgio Caproni e dei suoi lettori più fedeli» (Poesie e prose, Milano 2013, pp. 1064-65). Caproni richiederà a più riprese e con una certa ansia il testo dell’intervento e, una volta ricevutolo, confesserà di esserne «rimasto commosso» (p. 191).

Infine, un ulteriore aspetto notevole di questo carteggio è l’attenzione che viene data alle traduzioni. Questa insistenza è dovuta senza dubbio a motivi professionali, dal momento che Sereni viene nominato direttore editoriale della Mondadori dalla seconda metà degli anni Cinquanta, tuttavia si tratta anche di un interesse eminentemente poetico che investe i due in prima persona. Nel corso del tempo vengono infatti discussi alcuni testi tra i più importanti per la ricezione italiana come le Poesie scelte di Goethe tradotte da Giorgio Orelli, gli Epigrammi greci della Virgillito o le poesie di Cavafis tradotte da Pontani, anche se il legame più profondo è senza dubbio con la letteratura francese di cui è testimone, ad esempio, l’apprezzamento del Cimitero marino tradotto da Mario Tutino, definito «un egregio lavoro» (p. 167). A questo proposito va ricordato che sia Caproni che Sereni hanno condotto a lungo un’attività di traduttori in proprio affrontando autori capitali come Proust, Verlaine, Apollinaire, Hugo e altri. Essi seguono questi lavori vicendevolmente con grande interesse, commentandoli e consigliandosi. Così, quando esce Il musicante di Saint-Merry, il volume che contiene una selezione delle migliori traduzioni di Sereni, l’amico non può fare a meno di scrivergli lodando i «luminosi risultati da te raggiunti» (p. 200).

Il momento di più serrato e fecondo confronto è però senza dubbio la traduzione di Char e in particolare l’edizione uscita per Feltrinelli nel 1962 di Poesia e prosa che vede la collaborazione di entrambi i traduttori. Si tratta di un progetto, il cui sviluppo viene ricostruito puntualmente dalla curatrice nel suo saggio introduttivo, che occupa un intero lustro a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. È interessante, con un occhio al carteggio, rilevare come proprio in questi anni lo scambio epistolare si inaridisca fino a tacere del tutto, facendoci supporre qualche attrito nella divisione del lavoro (è infatti risaputo che Sereni rimase deluso dal fatto che l’introduzione al volume fosse stata affidata al solo Caproni) o in qualche aspetto della gestione editoriale. Il risultato è comunque notevole per «compattezza e organicità» (p. 57) e permette di immaginare che eventuali dissidi siano stati superati positivamente, rinsaldando l’amicizia e lasciando una duratura traccia nei successivi lavori di traduzione, nelle riflessioni e nel percorso poetico di entrambi.

A questo proposito piace concludere ricordando che, ancora all’altezza di Stella variabile, Sereni dedicherà dei versi alla sua esperienza di traduttore, confermando l’importanza che per lui ebbe questa iniziativa e, di riflesso, l’amicizia poetica con Caproni testimoniata dal carteggio: «A mio modo, René Char / con i miei soliti mezzi / su materiali vostri. // Nel giorno che splende di sopra la sera / gualcita la sua soglia d’agonia. / O trepidando al seguito di quelle / falcate pulverolente / che una primavera dietro di sé sollevano. // Un’acqua corse, una speranza / da berne tutto il verde / sotto la signoria dell’estate» (Poesie e prose, cit., p. 291).

Giorgio Caproni

Vittorio Sereni

Carteggio. 1947-1983

a cura di Giuliana Di Febo-Severo

Olschki, Firenze 2020

pp. 219, euro 25,00