Un continente in affanno

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Quando i singoli Paesi debbono rinunciare a pezzi di sovranità la strada si fa in salita

L’Europa fa grandi passi avanti sul fronte economico, anzi più correttamente su quello commerciale, ma è ferma sul piano politico

di Pierluigi Sabatti

 

C’è un’affermazione che mi fa arrabbiare. È questa: “L’Europa ci ha garantito settant’anni di pace”.

Non è vero che l’Europa (intendendosi con questo termine le istituzioni comunitarie che dagli Anni Cinquanta in poi hanno unito gran parte degli Stati del continente) abbia assicurato settant’anni di pace a tutto il continente perché nel 1990 è scoppiata una sanguinosa guerra civile che ha provocato lutti, distruzioni, centinaia di migliaia di profughi e ha cancellato un Paese dalla carta geografica: la Jugoslavia.

Una guerra che ha lambito il confine orientale d’Italia, per cui sentir ripetere anche da giornalisti di vaglia che l’Europa ci ha garantito settant’anni di pace è irritante: il prossimo 5 aprile saranno venticinque anni dall’inizio degli scontri in Bosnia Erzegovina, che rappresentano il capitolo più spaventoso del tremendo conflitto jugoslavo scoppiato due anni prima, perché questi scontri hanno riproposto, sia pure su scala ridotta, gli orrori della seconda guerra mondiale, a cominciare dalla pulizia etnica per finire al genocidio.

Tutto ciò è accaduto un paio di decenni fa a pochi chilometri dall’Italia. E si insiste a dire che “l’Europa ci ha garantito settant’anni di pace”?

Quando mi sono espresso in questi termini a un convegno sulla Shoah mi è stato spiegato che i settant’anni di pace si riferivano ai Paesi facenti parte dell’Unione Europea, non di quelli fuori.

Sono rimasto basito dalla miopia di una simile risposta che aveva un solo scopo: assolvere le istituzioni europee dalla loro incapacità di affrontare la prima vera grande crisi continentale.

Per capire meglio il discorso facciamo un rapido riassunto di come si è andato strutturando il nostro continente dopo gli orrori della seconda guerra mondiale.

Nel 1941 mentre Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Ursula Hirschmann ed Eugenio Colorni impostavano il Manifesto di Ventotene, che traccia le linee guida dell’Unione europea, sul Wannsee i nazisti, che stavano vincendo la guerra da loro scatenata, pianificavano il male assoluto: la soluzione finale del problema ebraico.

Nel 1945 gli esponenti politici che gestiscono le macerie dei propri Paesi devastati dal conflitto, il tedesco Konrad Adenauer , l’inglese Winston Churchill, l’italiano Alcide De Gasperi, l’olandese Sicco Mansholt, il francese Robert Schuman, il belga Paul-Henri Spaak fanno proprio il documento di Ventotene e avviano il processo che porterà all’unificazione del continente.

Bisognerà però aspettare il 9 maggio 1950 per veder realizzato il primo passo dell’Europa comunitaria, sarà proprio Schuman, nella veste di ministro degli Esteri, a proporre alla Germania e ad altri Paesi di creare una comunità di interessi pacifici. Nel ’51 viene istituita la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) formata da sei Paesi: Belgio, Francia, Italia, Repubblica federale tedesca, Lussemburgo e Olanda. La Ceca funziona così bene da indurre i sei a fondare la Comunità economica europea, che garantisce la libera circolazione di merci, persone e capitali nell’ambito del Mec (Mercato comune europeo). I relativi trattati vengono firmati a Roma il 25 marzo di sessant’anni fa. Ed è un crescendo: si forma il primo Parlamento europeo. Si uniscono ai sei Danimarca, Irlanda e Regno Unito. Qualche anno dopo entra la Grecia, successivamente Spagna e Portogallo. Cade il Muro di Berlino e con il trattato di Maastricht, che entra in vigore il 1 novembre 1993, nasce l’Unione europea (Ue). Si uniscono altri tre Stati, Austria, Finlandia e Svezia, per arrivare nel 2004 al più vasto allargamento: dieci Paesi, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Estonia, Lituania, Lettonia, Slovenia, Slovacchia, Malta e Cipro; alcuni di essi facevano parte del Patto di Varsavia o erano repubbliche dell’ex Unione Sovietica. Con Bulgaria, Romania e Croazia l’Ue arriva a ventotto Stati e costituisce il più esteso blocco commerciale del mondo con 500 milioni di cittadini. Gran parte di essi utilizza l’euro, in circolazione in 19 dei 28 Paesi dal 2002.

Un processo che, a raccontarla così, sembra inarrestabile, ma che in realtà ha avuto un andamento altalenante, perché quando i singoli Paesi debbono rinunciare a pezzi di sovranità la strada si fa in salita. I campioni dello statalismo sono i francesi, nonostante uomini come il citato Schuman e Jacques Delors, presidente della Commissione per ben tre mandati, Parigi si distingue per la sua politica sciovinista. Giova ricordare in proposito che il termine sciovinismo deriva da Nicolas Chauvin, soldato francese dell’impero napoleonico il cui nome fu utilizzato in vaudevilles e commedie per rappresentare il tipo del patriota fanatico.

Infatti i francesi bocciano nel ’55 la Ced (Comunità europea di difesa) proposta dall’Italia, che avrebbe portato ad un esercito unico europeo, e conseguentemente a una politica comune di difesa, senza dipendere dalla Nato, e forse, a una politica estera comune. E ancora i francesi boicottano in più momenti l’ingresso in Europa del Regno Unito. E sempre i francesi rischiano di far naufragare l’istituzione dell’euro e, infine, silurano, insieme agli olandesi, la Costituzione europea.

In breve, l’Europa fa grandi passi avanti sul fronte economico, anzi più correttamente su quello commerciale, ma è ferma sul piano politico.

E lo dimostra appunto la prima grande crisi che scoppia nel continente: la guerra in Jugoslavia. Nonostante la forte personalità di Delors, l’Europa comunitaria non riesce a trovare una linea comune. Ogni Stato fa la sua politica estera, a dimostrazione che le istituzioni comunitarie su questo piano non hanno capacità di manovra perché non hanno poteri. Non esiste una difesa comune, non esiste una politica estera comune, e, a ben vedere, non esiste neanche una politica economica comune e lo si verificherà con la grande crisi del 2008 regalataci dagli Stati Uniti. Nonostante la moneta comune, ogni Paese va per conto suo e si allarga la forbice tra i Paesi del Nord, Germania in testa, che hanno saputo affrontare l’emergenza economica e i Paesi del Sud, variamente qualificati in senso spregiativo (Pigs, acronimo di Portogallo, Grecia, Italia e Spagna ma anche plurale inglese di maiale) che continuano a trovarsi in difficoltà.

Il perdurare della crisi economica nel sud Europa, in particolare in Italia e in Grecia, e l’incapacità di gestire l’emergenza immigrazione dimostrano che ancor oggi nulla è stato fatto per rendere le istituzioni comunitarie degne di questo nome. Aver umiliato Atene con il pretesto del rigore di bilancio per potersi comprare porti, aeroporti e tutto ciò che rende; aver realizzato un oneroso accordo con la Turchia, che si tiene i rifugiati in condizioni disumane, con il sultano Erdogan che tiene l’Europa sotto ricatto; permettere al leader ungherese Orban di farsi beffe dei diritti umani senza intervenire sono i risultati di un’Unione che ha virato a destra sotto la guida di Berlino. Solo qualche organo di stampa rileva che anche i tedeschi violano le regole comunitarie tenendosi ben stretto il surplus commerciale, senza dare ossigeno agli altri partner europei. Una politica, quella di Frau Merkel e dei suoi sodali nordici, olandesi, danesi, svendesi, che si sta rivelando miope perché dà invece ossigeno ai movimenti populisti di vario colore, che possono distruggere il sogno europeo se vanno al potere. La politica del rigore a senso unico finisce per distruggere le classi medie nei ventotto Paesi, Germania compresa, e aumenta il disagio della classi più basse che sfogano la loro comprensibile rabbia contro l’obiettivo sbagliato, gli immigrati, lasciandosi incantare dalle sirene dei movimenti populisti che hanno gioco facile nel vellicare i più bassi istinti, che allignano in ogni essere umano.

Ma torniamo al conflitto nei Balcani, neanche la riorganizzazione della Cee in Unione europea, nel 1992, cambia la situazione e la guerra deflagra. Il continente sui divide: la Germania (insieme al Vaticano) sostiene l’indipendenza di Slovenia e Croazia, la Francia appoggia la Serbia, l’Italia tentenna: il ministro degli Esteri del governo Andreotti, Gianni De Michelis, si impegna per tenere unita la Repubblica Federativa, ma gli alleati democristiani, a partire da Flaminio Piccoli, presidente della Commissione Esteri della Camera dei deputati, tifano per Slovenia e Croazia. La spaccatura si avverte anche nel Friuli Venezia Giulia: la Regione fa una sua politica estera. Il presidente democristiano, Adriano Biasutti, svolge una sua attività diplomatica con incontri segreti a Lubiana e il parlamentare socialista Ferruccio Saro critica apertamente De Michelis, suo compagno di partito.

A tutti i livelli, continentali, statali e regionali ogni iniziativa viene paralizzata da veti incrociati. E intanto il conflitto si espande in Bosnia: Sarajevo viene circondata dalle truppe serbe. Comincia il più lungo assedi onella storia bellica moderna, dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996: quattro anni, con 12.000 morti, 50.000 feriti, l’85% tra i civili, e la fuga di migliaia di cittadini, che riducono la popolazione di Sarajevo a 334.664 unità, il 64% degli abitanti di prima della guerra.

E si continua a dire che l’Europa ha garantito settant’anni di pace? Sì, come spiegano gli europeisti “miopi”, settant’anni di pace tra francesi e tedeschi che, anzi, hanno formato un’asse che ha dominato le istituzioni comunitarie e non sempre per farle crescere.

L’11 luglio 1995 a Srebrenica, una cittadina termale a un centinaio di chilometri da Sarajevo, si ripete il male assoluto. Gli squadroni serbi di Ratko Mladić, uccidono migliaia di musulmani bosniaci (8, 9, 10 mila? non si sa ancora). Li uccidono soltanto perché sono musulmani, esattamente come era accaduto mezzo secolo prima per gli ebrei, mandati a morire soltanto perché ebrei.

Il genocidio avviene in una zona sotto la tutela delle truppe olandesi delle Nazioni Unite, che però si asserragliano nei loro alloggiamenti, foraggiate di droga, ragazze e alcol da Mladić e si guardano bene dall’intervenire.

Il crudele assedio di Sarajevo e il genocidio di Srebrenica inducono gli Stati Uniti a intervenire e a Dayton si firma un accordo che pone fine alle ostilità. L’Unione europea partecipa con Carl Bildt ma chi decide è Washington. La Jugoslavia non esiste più. Al suo posto ci sono una serie di piccoli stati e un grande malato, la Bosnia Erzegovina, che vegeta in un precario equilibrio, preda dei nazionalismi, della criminalità comune, della corruzione e del fanatismo islamista.

L’orrendo massacro di Srebrenica viene ricordato da un Memoriale nella vicina località di Potocari, dove erano stanziati i famigerati caschi blù olandesi, inaugurato nel 2003 dall’ex presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton. E l’Unione europea è resta a guardare. Come resta a guardare lo scorso anno quando è stato assassinato con efferata crudeltà in Egitto Giulio Regeni, un cittadino europeo. Da Bruxelles nemmeno un flatus vocis. In compenso la Francia ha stipulato accordi con il dittatore egiziano Al Sisi per vendergli armamenti e il Regno Unito si è ben guardato dall’intervenire, eppure Regeni era ricercatore per l’Università di Cambridge. Ateneo che peraltro ha tenuto un comportamento ignobile e vigliacco rifiutando di collaborare con la magistratura italiana.

Il redivivo Mario Monti ha affermato di “non dare per scontato che fra tre anni avremo ancora l’Unione europea”. La tornata elettorale di quest’anno in Francia, Germania, Olanda darà una risposta. E chi, nonostante le tante delusioni, continua a credere nel sogno europeo di Spinelli, come il sottoscritto, può soltanto sperare che gli elettori di quei Paesi non si lascino ammaliare dalle sirene anti-europee, che suonano più forti e lancinanti dopo la Brexit e l’arrivo della nuova lady di ferro Theresa May e elezioni americane e l’elezione dell’outsider Donald Trump