Ezio Solvesi, Tutintùn

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di Sandro Pecchiari

 

Riva de Barcola, la prima poesia della raccolta del quinto libro di poesie di Ezio Solvesi, ha quasi il profumo di un esergo e sa condurre immediatamente il lettore dentro l’atmosfera del libro. Non dimentichiamoci che Solvesi è nato a Barcola e questa poesia è uno dei tanti suoi omaggi ai luoghi della città. Tutintùn arriva dopo una produzione poetica decisamente copiosa e pluripremiata, ma dimostra altresì che c’è sempre spazio per un’ulteriore maturazione stilistica e per operare una svolta significativa nella propria poetica.

 

Riva de Bàrcola

 

Co’ nei oci

el smeraldo dei pini

e ‘l cobalto del ziel;

co’ ne le ‘rece

el rombo de le onde

e i zighi dei cocài

e ‘l profumo de salso

e ‘l sol, che me careza la schena.

Finalmente,

son de novo a casa,

rente el mio mar.

 

RIVA DI BÀRCOLA(*): Con negli occhi / lo smeraldo dei pini / e il cobalto del cielo; / con nelle orecchie / il rombo delle onde / e le strida dei gabbiani / e il profumo di salso / e il sole, che m’accarezza la schiena. / Finalmente, / sono di nuovo a casa, / vicino al mio mare.

 

(*) Bàrcola è una località balneare, nell’immediata periferia nord di Trieste, molto amata dai triestini.

 

Il libro è introdotto da una interessante prefazione di Fulvio Segato, altro noto poeta triestino. Riferendosi proprio alla poesia iniziale, Segato sottolinea quanto Solvesi riesca ad aderire e a evocare in modo attentissimo la realtà che lo circonda. L’habitat poetico di Solvesi è fortemente radicato nella natura, nel Carso, nel mare, nella città nelle diverse ore della giornata e nelle diverse condizioni meteorologiche e stagionali. Tra sole, nuvolo, borin, bora e la fastidiosa bora scura che però dimostra di sapersi anche rendere utile.

 

Bora scura

 

Bora scura,

che sbrega ombrele.

 

Bora scura,

che dismìssia i cavèi

e ruba carte, scovàze

e capèi,

che alza foie morte

a muci

e tuto remèna

fin zo, in riva,

a incontrar el mar.

 

Bora scura,

che stremìssi i colombi

strenti drio de le gorne

e che imborèza i cocài

che svola svelti

contro ‘l vento

a sbarufàr co la piova.

 

Bora scura,

che iaza e sbatòcia

ma che un poco neta

sta nostra vecia zità.

 

BORA SCURA: Bora scura, / che lacera ombrelli. // Bora scura, / che agita capelli / e ruba carte, spazzatura / e berretti, / che alza foglie morte / a mucchi / e tutto trascina / fin giù, alla riva, / ad incontrare il mare. // Bora scura, / che spaventa colombi / nascosti dietro le grondaie / e che rallegra gabbiani / pronti a volar / controvento / a sfidar la pioggia. // Bora scura, / che gela e sbatacchia / ma che un poco pulisce / ‘sta nostra vecchia città.

 

Spesso le poesie sono permeate di ricordi soffusi delicatamente di nostalgia, di paragoni tra il buon tempo andato e la realtà contemporanea non sempre favorevole, ma nel contempo sono poesie che rivelano il sollievo di essere o di tornare nella città e nel suo circondario.

Sono poesie in cui il poeta quasi sempre si fa in disparte e l’io narrante risulta schivo e quasi sempre celato. Il ricordo personale spesso sa farsi ricordo collettivo e memoria collettiva. L’io fa capolino solamente nelle poesie più intime e più preziose.

 

Casa mia

 

Son nato là,

in zima a la riva

longa e streta.

Là dove la strada

se spiana e, in pochi metri,

tre case se sburta,

spala contro spala.

Là xe casa mia,

riparada de la Bora,

in facia al mar e al sol,

tra profumi de bosco,

zighi de fioi,

sborbotàr de galine

e odor de ùa

‘pena ingrumàda.

Se vardo zo de la picia finestra

vedo ancora nel giardineto

el vecio susìn,

càrigo de ranglò,

e i fiori rossi del pomogranà.

E, se vardo meio,

me par ancora de vèder

mama e papà

a cocolarse e basàrse

sdraiai su la vanèsa

de radìcio zucherìn.

 

Casa mia

Son nato lassù, / in cima alla salita / lunga e stretta. / lì dove la strada / s’appiana e, in pochi metri, / tre case s’affacciano, / spalla a spalla. / là è casa mia, / riparata dalla Bora, / in faccia a mare e sole, / tra profumi di bosco, / grida di bimbi, / chiocciar di galline / e profumo d’uva / appena raccolta. / Se m’affaccio alla piccola finestra / vedo ancora nel giardinetto / il vecchio susino, / pieno di frutti, / e i fiori rossi del melograno. / E, guardando meglio, / mi sembra ancora di scorgere / mamma e papà / coccolarsi e baciarsi / sdraiati sull’aiola / di radicchio zuccherino

 

La poesia di Solvesi va guardata e perfino annusata, dice Segato, io aggiungerei che l’immediatezza dei versi richiama gli accostamenti a volte spiazzanti degli haiku, come ad esempio lo scarnissimo Carso, piere bianche, bora che colpisce nella sua essenzialità assoluta, o, in modo più dipanato, el rombo dele onde / i zighi dei cocai / el profumo del salso.

I luoghi nominati con dovizia da Solvesi sanno comunicare al lettore forza, presenza e resistenza proprio nel momento della loro percezione. Nel contempo rivelano la loro permanenza e ostinazione nel momento in cui invece vorremmo in qualche modo allontanarli.

 

Le poesie di questa raccolta ci permettono di entrare nel suo personale modo di descrivere e vivere la realtà circostante, in una Weltanschauung densissima di aggettivi qualificativi: colori e odori soprattutto. Una descrizione tumultuosa in qualche modo riconducibile alle descrizioni vivacissime di Corrado Govoni dai colori densi delle cose, della vitalità dei colori e della propensione per le strofe aperte. Inoltre l’interesse per il colore usato in modo materico e emotivo riportano alle esperienze liberatorie del Fauvismo o alle ricerche cromatiche di Anita Pittoni, se vogliamo rimanere nell’ambito triestino.

 

Nelle sue poesie più intimiste, sparse nel libro senza essere confinate in una sezione specifica, e che quindi piacevolmente sorprendono e sospendono il lettore in momenti di maggior calma e riflessione, possiamo ben parlare della presenza di un io narrante pacato e gentile anche nel rivivere perdite o dolori personali. Sono poesie in qualche modo disilluse e amare, ma anche versi in cui Solvesi rivela il suo percorso di gestazione creativa, il suo manifestarsi e lasciarsi scrivere. Una confessione garbata di poetica, insomma.

 

Versi

 

Li sento, come rèfoli, passar.

Come un volo de stornei,

che riva e sparìssi, subito,

in un bàter de ale.

Xe cussì ‘sti versi:

spetài a lungo, curai, carezài…

zercài inte le pieghe de la memoria.

E po, tutintùn,

te se li trovi qua, pronti,

che par che i se scrivi soli.

E tuto ‘sto subiàr

te par solo una monàda.

 

Versi

Li sento, come refoli, passare. / Come di stornelli un volo, / che arriva e sparisce, rapido, / in un batter d’ali. / Son così ‘sti versi: / attesi a lungo, curati, accarezzati… / cercati fra le pieghe della memoria. / Poi, di colpo, / te li ritrovi qua, pronti, / che pare si siano scritti da soli. / E tutto questo faticare / ti sembra poi troppo sciocco.

 

Dovunque nel libro, Solvesi è molto attento, oltre che alle sinestesie, alla ricerca dell’armonia/disarmonia nei suoni, nelle allitterazioni mai casuali, in un lavoro preciso sull’emotività dei significanti, riuscendo a trasportare anche nella scelta delle consonanti e delle vocali le emozioni che gli provengono dal mondo circostante e dalla sua rilettura/ricostruzione. Un esempio per tutti la poesia Mar de inverno in cui il basso continuo del suono ‘r’ suggerisce il rotolare della ghiaia mossa dal mare. Sopra questo suono si ergono delle scelte di ’s’ sonore e sorde alternate alle ‘z’ anch’esse sonore e sorde a suggerire il vento e il volo dei gabbiani nel vento. Non meno importante il gioco delle vocali, in questi versi, una continua insistita alternanza di ‘a’ e di ‘o’ a veicolare sorpresa e calma nell’osservare il paesaggio e quello che si sta svolgendo davanti ai suoi occhi.

 

Mar de inverno

 

Se ingrèspa l’onda in spiagia,

sburtàda de un borin pizighìn.

Xe trasparente l’aqua

e vien voia de far l’ultimo tòcio.

Neri pini se sbatòcia in riva,

scantinài del vento,

e ‘l profumo de pino

se mìssia col salso de le onde.

Xe basso el sol

ma ‘l scalda ancora i ossi.

In ziel, tra nuvoli sbregài del vento,

svola svelti zento cocài,

sgrafàndo el blu,

co’ le ale strente,

contro la Bora.

Son solo in spiagia

a vardàr ‘sto mar de inverno

pien de pase e, finalmente, neto.

Perfin la giarìna, in riva,

la par più bela

e la brila, soto el sol,

de mile e mile paiuze de oro.

 

 

MARE D’INVERNO: S’increspa l’onda in spiaggia / sospinta dal respiro d’un vento pungente. / E’ trasparente l’acqua / e vien la voglia d’un ultimo tuffo. / Neri pini s’agitano a riva, / sballottati dal vento, / e il profumo di pino / si mescola col salmastro delle onde. / E’ basso il sole / ma scalda ancora le ossa. / In cielo, tra nuvoli strappati dal vento, / volano svelti cento gabbiani, / graffiando il blu, / con le ali strette, / contro la Bora. / Son solo in spiaggia / ad ammirare questo mare d’inverno / pieno di pace e, finalmente, pulito. / Perfino la ghiaia, in riva, / sembra più bella / e brilla, sotto il sole, / di mille e mille pagliuzze dorate

 

Lascerei alla capacità del lettore di immergersi, di giocare e di snidare tutti questi particolari sparsi con ricchezza e delicatezza nelle poesie, che creano l’atmosfera particolarissima di questa bella raccolta.

 

 

Ezio Solvesi

Tutintùn Prefazione di Fulvio Segato

Samuele editore, Fanna (PN) 2019 pp. 92, euro 12,00