Universi in 4000 battute

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di Gabriella Ziani

 

Pochi possono dire «la sapete quella…» e trovare un uditorio già col sorriso stampato anziché con la noia preventiva che di solito suscitano sia il barzellettiere e sia il compiaciuto a cui ne accadono sempre di nuove da riferire in pubblico come uniche e strabilianti. Qualunque cosa invece Giuseppe O. Longo, o “Pino” per gli usi più affabilmente domestici, prometta di raccontare, sarà sempre festa. Dai suoi circuiti, che la scienza ingegneristica e tecnologica dell’informazione di cui è uno dei massimi studiosi, docenti, esegeti e divulgatori, non ha ancora analizzato, si produce – nessuno sa come – l’arte del narrare perpetuo, con la naturalezza scritta e orale dell’acqua che sgorga pura e perfetta, con la frequenza di un bip senza interruzione di corrente, con una luce capace di illuminare gli angoli più nascosti, segreti o ad altri invisibili del cuore e della psiche umana, ma anche delle macchine che stanno per mangiarseli, capaci ormai come sono di sostituirli. E, per tornare alla sostanza umana di cui è esperto indagatore, quest’arte del narrare costante è come un cuore che batte al suo ritmo esatto, a ogni colpo una botta di vita.

Ora chi non l’avesse mai letto – rara cosa vista la grande produzione di almeno tre romanzi, tredici raccolte di racconti, testi teatrali e radiofonici, alcuni recitati da sé medesimo con fascinosa padronanza di voce, più i saggi –  potrebbe pensare che questo ingegnere-scienziato-docente-traduttore-scrittore-conferenziere nato a Forlì, trapiantato per decenni a Trieste e ora accasato con giardino a Gorizia, sia come le macchine elettroniche di cui studia l’anima fredda e la generazione di intelligenza artificiale, e cioè egli stesso un meccanismo destinato a replicare all’infinito ciò per cui è stato costruito. Ma la meraviglia sta proprio nel contrario: anche i quarantatre racconti minimi di Verso Punta Marina. Ricordi sincopati e fantasie inesorabili che ora, come regalo per i suoi primi 80 anni, escono in un bel volume dopo essersi cadenzati a ogni numero del Ponte rosso sono, ciascuno e nessuno escluso, un tale condensato di vita vissuta, sognata, ricordata, temuta, triste, logorata, stupefacente, e un tale squadernamento di luoghi, corpi, facce, stanze, palazzi, cantine e fabbriche, di mari, fiumi, odori, ma anche paurose illusioni e delusioni eccetera, che la diagnosi non lascia dubbi – specie sapendo quanto sia arduo anche per i migliori astri letterari raggiungere ogni volta con la misura breve la perfezione del cerchio, la profondità del senso compiuto: in Longo non scorrono semplici gocce di sangue, ma parole e visioni, che raccolgono a rete l’infinita intermittenza dell’avventura umana, del suo drammatico e angoscioso incedere. E nonostante le apparenze del tutto congrue ci siamo ormai convinti che non abbia due occhi, ma tanti, alcuni dotati di lente d’ingrandimento, altri di raggi x che fotografano l’indicibile, altri ancora con cannocchiale a veder lontano, e certi che guardano all’indietro, a riprendere quel momento, quel dettaglio, quella mezz’ora in cui si è materializzato qualcosa di perturbante, di terribile, di strano, perfino di “impossibile”. Momenti e situazioni di cui non saremmo stati altrettanto capaci di intendere l’enormità, il mistero, l’assurdo, il tragico nelle loro varie declinazioni.

Lo avevamo apprezzato e ammirato, sprofondati nelle infinite spirali della sua analisi inquietante del mondo, in Il fuoco completo (Studio tesi, 1986), La gerarchia di Ackermann (Moby Dick, 1998), Trieste: ritratto con figure (Moby Dick, 2004), Congetture sull’inferno (Moby Dick, 1995), I giorni del vento (Moby Dick, 1997), nell’Acrobata (Einaudi, 1997), ma anche nei più recenti Antidecalogo (Jouvence, 2015) e Sette stanze (Jouvence, 2020) e tutti gli altri: un grande scaffale su cui aleggia il plauso agli editori per così dire “piccoli” (e nobili), e la domanda senza risposta sui motivi per cui uno scrittore di così rara intelligenza, raffinatezza e accessibilità non sia stato stabilmente catturato al laccio dai grandi gruppi editoriali. Forse sarà il tema di un prossimo racconto, ovviamente di tono surreale…

Intanto si sente un’altra volta, in questa nuova fabulazione così matematicamente precisa nel tagliare ogni brano a diamante, nel descrivere in breve una folla di persone credibili e così tanti ambienti concreti che restano incisi nella memoria, un’eco rinnovata e arricchita degli antichi “falò”, un andare “alla Sheherazade” che dà spessore vitale alle pagine, e in questo stile penetrante Longo ha conservato una natura persuasa e sanguigna, non si è lasciato risucchiare dal carattere tipicamente triestino, che pone tra sé e le cose una traslucida tendina di scetticismo e fa degli “inetti” di Svevo i propri supremi eroi di “nessun luogo”. Gli eroi minimi di Longo, dei piccolo-borghesi di provincia, da vacanza in solita spiaggia e hotel di bassa categoria, case alla nonna Speranza e case di riposo vicine al disgusto, sono a ogni passo catturati e immersi come kafkiani scarafaggi: se scendono in una fetida cantina che preannuncia oscuri misteri, vanno fino in fondo, mentre ci sono ragazzini in cerca anno dopo anno di una «Punta marina» che mai raggiungono (bella metafora esistenziale…), e altri pensano davvero che fuori città vi sia un sanatorio esalatore di malattie (da adulti scopriranno che non c’era mai stato), altri ancora credono tremanti che dietro le alte porte del collegio-convento siano alloggiati i Morti, e arrivano fin sulla soglia, disposti poi a scambiare per morti dei vivi, tanto la suggestione vince sulla visione. Le coppie che l’una dopo l’altra fanno il viaggio organizzato per arrivare a vedere la fine del mondo son convinte tutte di averla vista, ma ciascuno ha visto qualcosa di diverso, cioè niente, mentre l’apocalisse si presenterà alla finestra del salotto. E il maestro Calcaterra, supplente di pessimo carattere, sorpreso dai ragazzini a un triste pasto solitario in una casa puzzolente, mentre piange? E quell’uomo che aspetta una telefonata da una donna, in hotel, e moltiplica i secondi per quanto li consuma, e quando il telefono suona ormai dorme? Basta uno scarto tra un momento e l’altro, tra la percezione di oggi e quella di ieri, tra il dentro e il fuori, e la storia cambia di botto, e Longo cattura quel dettaglio e lo espande per il numero esatto di battute, e il cerchio si compie, rotondo, delimitato da una linea pura, mentre restano ininfluenti e citate perciò in fretta, solo se serve, le ovvie dinamiche che toccano a ciascuno attraverso il tempo che dona e che divora: diplomi, matrimoni, lavoro, figli (roba lunga, materia per romanzi). Del resto, il racconto è un focus – lo abbiamo imparato da James, Woolf, Joyce, Wharton, Hemingway, Poe, Munro, Blixen, Bowles, Pirandello, Cechov,  Borges, Buzzati, Calvino, Landolfi… – e Longo fra questi ci sta a braccetto.

Fin qui si son citati molti racconti sul tema dei bambini, della memoria e dello straniamento, ma in questo teatro dell’imprevisto si trovano altre ricorrenze: i muri, i muraglioni, le muraglie, che incombono e chiudono l’orizzonte e ciò che esso simboleggia; gli odori di varia origine, preferibilmente cattivi (fino al racconto intitolato proprio Fetore), emanazione sensoriale di una brutta situazione o sensazione o previsione; le donne vecchie, o simil-streghe, in cui si condensano visivamente lo sfacelo e il dolore del tempo–mondo, in una cupezza che rimanda a fumose stanze mitteleuropee d’antan; gli uomini strani come il contabile fumatore (un verismo d’altri tempi), o il fotografo che dopo aver immortalato bambini che sembrano manichini, o morticini, sorretti da ganci, per far soldi si accorda infine con la prigione e punta l’obiettivo sugli impiccati; e ancora gli edifici, vuoti e no, che risuonano di ogni possibilità ed evento specialmente negativi, preoccupanti e fagocitanti (Nella polveriera, L’officina, Fornace vecchia).

E mentre rileggevamo questi “camei”, di tanta eleganza nella loro forma narrativa, ci tornavano via via in mente tutti quegli altri titoli (non certo escluso il delizioso Alcibiade, una suite per bassotto dedicata al suo cane) dell’ingegnere che conosce ogni cosa del web, della cibernetica, dell’informatica e delle sue inarrestabili possibilità, scisse da ogni norma morale o da filosofici sensi del limite, di cui  il suo versante di letterato–umanista combatte per via artistica l’algido primato, mettendo in guardia dalle conseguenze, e riportando alla ribalta il nostro comune irrinunciabile aggancio alla natura biologica, fatta di sensi, relazioni, sentimenti.

Così, tanto per usare un po’ questi mezzi potenti e immateriali il cui kit tecnico a lui familiare ci resta profondamente sconosciuto, abbiamo curiosato a caso nella ricorrenza delle parole per scoprire se ve ne sono di prevalenti. Sì, e riguardano proprio la modalità umana e il suo modo di manifestarsi: occhi ricorre 78 volte, guardare 67, parlare 46, chiamare 41, pensare 43, casa 33, vita 34, vecchi-vecchiaia batte bambini 65 a 32.

A parte queste imprecise analisi (mai giocare a numeri coi matematici…) c’è un racconto in questo libro che particolarmente assume la fisionomia di un messaggio, ed è Mnemonia. Siamo in una futuribile – ma forse non tanto – fabbrica-azienda dove tutto è sempre nuovo, e dunque ogni giorno si buttano nella spazzatura carte, appunti, agende, e-mail, testi virtuali… e questa spazzatura invade lo spazio esterno, rifacendosi spazzatura altrove, e si scontra con la spazzatura che anche altri espellono, finché la previsione è di essere sovrastati e intossicati da questo lavoro di eliminazione di massa che, per teorema, nella sua coazione a ripetersi e creare accumuli ineliminabili, non potrà mai finire e non avrà alcun esito se non di sommergerci, in un’azione tanto asetticamente tecnologica quanto concretamente suicidaria.

Sembra un incubo di fantasia, ma se l’ingegnere con tanti occhi stesse invece vedendo chiaro ciò che noi ancora stentiamo a mettere a fuoco, mentre se lo facessimo agiremmo di conseguenza, giustamente spaventati della nostra sorte? è così capace di rappresentare questa apocalisse 2.0, di teorizzarla e filmarla, e del resto ha già visto tante ustioni anche nel profondo della nostra psiche, che dovremmo credergli sulla parola. Alla luce dei fatti, anche quando parla d’altro. Suggestione che porta a far salire Longo ancora di un gradino: non solo fra i  classici, anche fra i maestri, in senso – una volta di più – classico.

 

Giuseppe O. Longo

Verso Punta Marina

Ricordi sincopati e

fantasie inesorabili

Prefazione di Roberto Curci

La Libreria del Ponte rosso

Trieste 2021

  1. 152, euro 13,00