FATHER AND SON

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Esilarante monologo da testi di Michele Serra

di Walter Chiereghin

 

Continuo a non capire perché per citare un film, da diversi anni, bisogna dirne il titolo in inglese. Probabilmente perché molti film ci vengono dagli USA, ma allora come si spiega che Soshite Chichi Ni Naru, titolo originale di un film del giapponese Hirokazu Kore-Eda uscito nel 2013 è conosciuto in Italia (in Italia!) col titolo di Father and Son? Bizzarra esterofilia o che? Sarà mica, anziché l’appropriatezza filologica che viene reclamata, il provincialismo di un popolo che crede di essersi impossessato finalmente dell’inglese, mentre parla placidamente l’americano maccheronico (è il caso di dirlo) di Alberto Sordi diretto da Steno in Un americano a Roma (I’m sorry An American in Rome)? Con questa preconcetta perplessità sono andato a vedere lo spettacolo Father and Son, di scena al Politeama Rossetti di Trieste dal 6 al 10 gennaio: un lungo (italianissimo) monologo recitato da Claudio Bisio su testi di Michele Serra. Poi, quando il sipario s’è alzato sulla scenografia “arte povera” ideata da Guido Fiorato (verso la fine dello spettacolo un’esplicita citazione dell’installazione di Jannis Kounellis realizzata al Salone degli incanti nel 2013) e ho sentito i due musicisti (Laura Masotto al violino e Marco Bianchi alla chitarra) suonare Cat Stevens ho capito – e perdonato – l’inglese del titolo, clonato da quello di una delle più celebri canzoni del cantautore britannico.

Spettacolo ricco di spunti di riflessione, al di là delle battute talvolta esilaranti, ma sempre acute, sul rapporto di un padre con quell’oggetto misterioso che vive nella sua stessa casa è che è per certo suo figlio,anche se sempre più l’incomunicabilità tra i due, e tra le due generazioni di cui sono significativi campioni, lo rende un alieno, sdraiato su un divano tra avanzi di improbabili spuntini, con le cuffie alle orecchie, uno smartphone in mano, un libro aperto sempre alla medesima pagina nell’altra, il notebook sulle ginocchia e il televisore acceso a tutto volume. Già l’insieme di questi fattori lo rende in effetti un alieno, catafratto all’interno di una sua impenetrabile e tecnologica armatura che evidenzia, ove ce ne fosse bisogno, la sua estraneità a un mondo che il padre giudica essere quello “normale”. Curioso il fatto che tutti gli strumenti informatici e di telecomunicazione che il figlio utilizza costantemente sono pensati per comunicare, ma vengono al contrario utilizzati dall’alieno per ostacolare una comunicazione si direbbe da lui riservata soltanto a oscure relazioni extra-familiari.

Con testi tratti da due libri di Michele Serra, Gli Sdraiati e Breviario comico, lo spettacolo è stato presentato già nella scorsa stagione, con la regia di Giorgio Gallone, che si avvale dell’interpretazione straordinariamente brillante di Claudio Bisio, il quale anche calcando le scene triestine ha saputo dar prova di una felicemente acquisita maturità attoriale, rivestendo, sembrerebbe con convinzione e cognizione di causa, i panni di un padre stranito alle prese con un adolescente refrattario a ogni dialogo col genitore, in una negazione di sé condotta con strenua inerzia. Più che mai adeguata, in tale assenza pressoché assoluta di dialogo, la scelta del monologo come strumento per mettere in scena una condizione familiare in cui moltissimi possono riconoscersi, padri o figli che siano.

Tutto avviene all’interno della spumeggiante ironia di Michele Serra, con frequenti digressioni dal tema principale, che tuttavia rimane l’ossatura dell’intero spettacolo. Non poteva mancare un po’ di satira politica, e difatti commentando un argomento da anni d’attualità Bisio osserva che “anche la legge elettorale azteca, che prevedeva l’elezione di un unico deputato da sacrificare a ogni solstizio, era più democratica di questa”. Serra si riferiva al cosiddetto porcellum di Calderoli, ma credo che la battuta vada bene anche per l’italicum d’ispirazione renziana: quando si dice dell’attualità di un testo…