FESTIVAL WUNDERKAMMER

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FESTIVAL WUNDERKAMMER

di Luigi Cataldi

 

 

 

Si è di recente conclusa l’edizione 2023 del Festival di musica antica “Wunderkammer”, intitolata Carpe diem, con la direzione artistica di Paola Erdas e la collaborazione della Società dei Concerti, con nove concerti nel fine settimana (20-22/10/23), in tre sezioni: “Conserto in concerto” per ensamble, “Concerti gioiello” inclusi nel programma della S.d.C, “Bimbi ma non solo” dedicata ai più piccoli). Ne abbiamo visti due.

Inaugurazione di gran pregio al Teatro Miela il 20 ottobre, con Arnalta Cafè. Nutrici nell’opera italiana del Seicento, concerto-spettacolo di Luca Cervoni (tenore, specialista di canto madrigalistico e d’opera antica, attivo sui palcoscenici di tutta Europa), Alessandro Quarta (direttore e continuista al cembalo – Prix Caecilia 2015 per Sacred music for the poor e Diapason d’or 2016 per La sete di Christo di Bernardo Pasquini –, didatta, fra l’altro, ai Corsi internazionali della Federazione Italiana di Musica Antica di Urbino), e del Concerto Romano fondato e diretto dallo stesso Quarta (violini: Gabriele Pro e Matteo Pizzini; viola da gamba: André Lislevand; tiorba e chitarra: Giovanni Bellini; contrabbasso: Mario Filippini; Alessandro Quarta: cembalo e concertazione).

Arnalta Cafè

Arnalta è la vecchia nutrice della monteverdiana Incoronazione di Poppea, che per l’ascesa al trono della sua padrona così gioisce insuperbita: «no, no, col volgo io non m’abbasso più; / chi mi diede del tu, / or con nova armonia / gorgheggerammi il “vostra signoria”». Da lei che fu la prima (l’opera di Monteverdi e Busenello è del 1642) prende spunto e sproloquia, da Venezia all’Europa, una nutrita schiera di anziane, tutte o quasi tenori o baritoni en travesti, tutte desiderose di amori senili, pronte a esaltar le tracce della loro perduta avvenenza, a nasconder quelle dell’età presente, a ricordar le gioie dei passati amori, a sospirare giovani aitanti. Ci accoglie in questo Cafè Pasquarella (da Il Girello, di Jacopo Meloni, libretto di Acciaiuoli e Apolloni, Roma 1668) in abito rosa shocking, collana, bracciale e trucco pesante. Le «è venuto un appetito di marito» al punto che, in fine d’aria, lamentando la sua sorte («non ho figli e patisco il mal di madre») stramazza al suolo. Dirce (da La Dori di Cesti e Apolloni, Firenze 1661), furiosa, si dispera, «s’io son vecchia è mal per me […], / hor c’amar / altri vorrei / occhi miei tempo non è». «Voli il tempo se sa» canta con aria di sfida Delfa (Il Giasone di Cavalli e Cicognini, Venezia 1649), «rotin gli anni fugaci al corso loro, / mi rubi pur l’età / i fior dal volto e dalle chiome l’oro, […] / ma ch’io lassi d’amar / no ’l farò, non a fé, non io». Capitata chissà come (viene da L’amazzone corsara di Pallavicino e Corradi, Venezia 1686), ma a suo agio fra le altre, vi è anche Gilde, «giovane bizzarra», che nella speranza del matrimonio lascia gli studi per addottrinarsi «ne la scola di farsi bella»: «Acque, polvi, nastri, fiori, / minio, balsami, gemme e ori, / corro, volo a rintracciar. / Guancia, labro, fronte, crine, / seno, collo, e destra alfine / corro, volo a riformar». In questo Cafè si è indotti al riso, ma c’è un un fondo di malinconia per la fugacità della vita, per i desideri insoddisfatti, per la sfiorita giovinezza. Talvolta queste non madri provano profondi affetti materni. Vediamo Rodisbe (Giulio Cesare in Egitto, di Sartorio e Bussani, Venezia 1676), piangere per lo spodestato Tolomeo e ascoltiamo di nuovo Arnalta, questa volta per nulla superba, cantar la ninna nanna alla pupilla poggiata in grembo: «Oblivion soave / i dolci sentimenti / in te, figlia, addormenti. […] / Poppea rimanti in pace; / luci care e gradite, / dormite omai dormite».

Luca Cervoni dona a tutte loro corpo e voce. Ce le mostra sfrontate confessarsi al pubblico o, accorate, difendere autoinganni e speranze vane, alludendo al vero della finzione e al falso della vita vera. Infine Ergista in Chi brama goder (da Il Demetrio di Pallavicino e Dall’Angelo, Venezia 1666) si toglie il trucco e oltrepassa il labile confine fra posticcio e vero.

Con una perfetta tecnica del canto antico, una dizione limpida, una voce duttile (morbida nel registro acuto, robusta in quello grave), un istrionismo fantasioso e mai eccessivo, Cervoni esalta l’umanità dei personaggi. Buona l’intesa con il Concerto romano, che ha eseguito anche brani strumentali (vanno segnalate la Ciaccona di Maurizio Cazzati, 1667 e il Canario di Kapsberger, 1640). Un bell’esempio di come la filologia (applicata alla ricerca e alla trascrizione dei testi da Quarta e Cervoni e alla tecnica esecutiva dall’orchestra) può rendere viva, attuale e godibile la musica dei secoli passati. Calorosissimi gli applausi del numeroso pubblico presente.

Per i solistici “Concerti gioiello” è stato possibile ascoltare il 22 ottobre al Museo Sartorio il liuto a 13 cori di Simone Vallerotonda (solista e continuista di fama europea, una formazione al Conservatorio di Santa Cecilia e alla Staatliche Hochschule für Musik di Trossingen, fondatore dell’ensemble “I bassifondi”, dedito alla musica per liuto, chitarra e tiorba dei secoli XVII e XVIII). Il programma rispecchia, con minimi tagli, quello del suo recente CD, Méditation. Le quatre saison du luth (Arcana 2022).

Simone Vallerotonda

Vallerotonda, utilizzando composizioni di diversi autori francesi dei secc. XVII-XVIII, ha ricavato le sue Quattro stagioni dalla “teoria umorale” di Ippocrate. L’esordio è con l’Inverno, associato alla tonalità di do minore, al temperamento malinconico, all’elemento terra, all’umore atrabiliare con sede nella milza. La suite è introdotta da un flebile Prélude di Charles Mouton (1626-1699), che induce l’uditorio all’assoluto silenzio e alla concentrazione, seguito da una vivace Chaconne dello stesso autore, da un Tombeau di Robert de Viseé (1650-1725), luttuosa composizione per defunti, (Mazzarino in questo caso) in forma di Allemanda, da altre due composizioni di Mouton, La Mélancolique in forma di tenue Sarabanda e La Volage, ritmata e triste Passacaglia, per giungere a una conclusione lieta con Le comete di Jacques Gallot (1625-1695), Ciaccona in do maggiore, in cui, dopo il buio, il sole pare far capolino. I suoni, che velocemente svaniscono nella piccola sala del Sartorio, richiamano “affetti” negli ascoltatori, concentratissimi di necessità. Prevalgono il ritmo ternario, l’andamento circolare degli ostinati (Ciaccona e Passacaglia) nei brani; nell’esecuzione i “rubati” che enfatizzano le cadenze, la moderazione dei tempi, la leggerezza del tocco, il ripiegamento su sé. Ciò vale anche per le altre Stagioni: l’Estate in sol minore (fuoco, temperamento collerico, bile gialla che ha sede nel fegato), con brani di Pierre Dubut le fils (1642-1700), Germain Pinel (1683-1764), Jean-Philippe Rameau (1683-1764) e De Visée; l’Autunno in re minore (acqua, flegma che ha sede nella testa e induce a analogo temperamento), con composizioni di De Visée, Pierre Debut le Pére (1610-1681), Gallot e Valentin Strobel (1610-1669); la Primavera (aria, sangue, che affluisce al cuore e induce al sanguigno affetto), con le note di Gallot, De Visée e Mouton. Si apprezza in particolare nell’Estate, la trascrizione della vivace Air pour les esclaves africains da Les Indes Galantes di Rameau, il maliconico, autunnale Altesse royale di Gallot e, dello stesso compositore, i primaverili passi di danza di Les Castagnettes. My mistress is pretty, brano di chiusura ancora di Mouton, ha una storia illustre. Il tema viene da Fuggi, fuggi, fuggi da questo cielo, canzone popolare del Cinquecento, nota anche come Ballo di Mantova, poi rielaborato in numerosissime composizioni, popolari e colte, in tutta Europa e, più di recente, nella Moldava di Smetana e nell’inno nazionale di Israele Hatikvah. Anche per tutti gli echi di composizioni antiche che ritroviamo in mille opere moderne la musica dei secoli lontani suona familiare al nostro orecchio. Rarefatta e raffinata, quella di Vallerotonda è stata accolta da convinti applausi dal pubblico.